martedì 12 agosto 2008

Approfondimenti - Il Cinema

PASOLINI E IL CINEMA

www.pasolini.net (Pasolini 1971)

4.1. Introduzione

"Sono arrivato al cinema dopo i quarant'anni, e questo fatto è stato fondamentale: ho girato il mio primo film semplicemente per esprimermi in una tecnica differente, tecnica di cui ignoravo tutto e che ho appreso con questo primo film. E per ciascun altro film, ho dovuto imparare una tecnica differente e adatta."(1)

Fare film gli permetteva di raggiungere un pubblico molto più vasto dei pochi lettori di narrativa e poesia. Usava preferenzialmente attori non professionisti, soprattutto sottoproletari, affinché interpretassero se stessi. Tuttavia si rivolse anche ad attori professionisti eccezionalmente bravi, sublimi anche come persone. A lui si deve il merito di aver scoperto il Totò autentico, non quello dei film da consumo di massa, ma il Totò dolce, intelligente ed impegnato in una comicità d'alto livello culturale. Rifuggiva dal naturalismo, essendo per lui il cinema una ricostruzione del mondo attraverso il montaggio. Si ispirava ai registi Dreyer, Chaplin e Mizoguchi. Aveva un modo di ricostruire le scene che risentiva della sua formazione e passione pittorica.

Colgo l'occasione per lanciare un appello: come è stata fatta la raccolta di tutti gli scritti nella collana "I Meridiani" Mondadori, sarebbe opportuno distribuire una raccolta completa di tutte le opere audiovisive (film, documentari, interviste televisive). Tale mancanza ha fatto sì che questa "puntata" del mio saggio si basasse (quasi) sulla sola lettura delle sceneggiature. Pasolini, in fase di montaggio delle immagini, modificava il copione. Il materiale filmico attualmente in vendita copre solo una parte delle sue opere.

4.2. I suoi film

Accattone (1961) nasce in un momento di sconforto, cioè durante il governo Tambroni appoggiato dai missini (quindi Pasolini scrive la sceneggiatura già nel 1960): il film risente del clima politico di spostamento a destra, che fortunatamente ebbe breve vita. Il protagonista è Vittorio, detto Accattone, giovane sottoproletario romano che ha lasciato moglie e prole per vivere con Maddalena, da lui sfruttata come prostituta. Maddalena però finisce in carcere per calunnia e Accattone si ritrova senza soldi e affamato. Cerca allora aiuto dalla moglie, ma questa e la famiglia di lei lo cacciano via. Allora, dopo aver conosciuto una ragazza timida e innocente di nome Stella, tenta di prostituirla ma non ci riesce perché con tutta la buona volontà, è troppo brava ragazza per assecondare il primo (e ultimo) cliente. Intanto in carcere Maddalena viene a sapere dell'altra che l'ha rimpiazzata e denuncia Accattone per istigazione alla prostituzione (non sua, di cui tace, ma di "una povera ragazza"); la polizia comincia a tenerlo sotto controllo. Lui si innamora davvero di Stella, prova a lavorare ma non ce la fa fisicamente, non essendovi abituato. L'ultima risorsa è il furto. Ma la sua prima (ed ultima) esperienza di ladro finisce tragicamente con la morte, mentre cerca di sfuggire agli agenti che lo inseguono. Il mondo sottoproletario romano, ancora autenticamente legato a una cultura distinta da quella della classe dominante borghese, è visto dall'autore in tutta la sua crudezza e crudeltà, determinate socialmente dalla ingiustizia distributiva (col tacito patto tra borghesi, polizia e Chiesa). Non c'è da stupirsi quindi che "il 28 ottobre [1961...] al cinema Barberini di Roma, alcuni dimostranti delle «Formazioni nazionali giovanili Nuova Europa» lanciarono volantini, bottiglie di inchiostro e ortaggi contro lo schermo. La sera, al cinema Quattro Fontane, Pasolini venne affrontato da un gruppo di giovani fascisti, che gli gridarono «in nome della gioventù italiana, fai schifo!» e lo schiaffeggiarono."(2)

Mamma Roma (1962), interpretata da Anna Magnani, è la storia di una prostituta che riesce ad affrancarsi dal suo protettore Carmine e decide di cambiare vita. Porta a Roma con sé il figlio sedicenne Ettore, che ha sempre ignorato l'attività della madre. Tenta di fare una vita piccolo-borghese, tenendo un banco di frutta nel mercato di Cecafumo. Vive totalmente nella dedizione verso Ettore; dopo aver cercato invano di mandarlo a scuola, essendo negato agli studi, con un sotterfugio riesce a fargli avere un posto di lavoro come cameriere in un ristorante famoso. Però Carmine torna e minacciandola di rivelare tutto al figlio, la costringe nuovamente a prostituirsi. Ettore viene a sapere il mestiere segreto notturno della madre da Bruna, una ragazza madre sempliciotta di cui si approfittano molti ragazzi del quartiere e che lui ha amato; disperato, lascia il lavoro e si dà a piccoli furti, fino a quando non verrà arrestato e messo in prigione, dove febbricitante, legato a un tavolaccio a causa della sua inquietudine, muore chiamando la madre. Il fatto di questa morte assurda è reale: il diciottenne Marcello Elisei era morto proprio così a Regina Coeli, e quando Pasolini lo seppe si indignò nei confronti del direttore del carcere, dei secondini e, in ultima analisi, dei governanti che permettevano simili atrocità.(3)

Il personaggio di Mamma Roma è uno dei più riusciti dell'autore: è una donna che cerca di capire chi è responsabile di tutto il male che accade ai poveri cristi come lei. E' dubbiosa tra una responsabilità individuale, per cui ciascuno è colpevole per ciò che è e fa, ed una responsabilità sociale, per la quale è la società che crea le condizioni del male. Infatti la sceneggiatura termina col suo grido (dopo che ha saputo della morte del figlio): "I responsabili! I responsabili! I responsabili!"(4)

Nel film il grido fu eliminato.

Il padre selvaggio (1962) è sotto forma di trattamento (con alcuni dialoghi e scene), ma non reso completa sceneggiatura né girato. La vicenda si svolge nel Congo durante la guerra civile immediatamente successiva all'indipendenza ottenuta nel 1960. In un clima di lotte tribali, che fanno alla fin dei conti gli interessi delle multinazionali neocolonialiste, le quali intendono dividere gli animi e non farli crescere in una reale democrazia, un ragazzo intelligente e sensibile (un po' tenebroso, per la verità) di nome Davidson, è alle prese con un nuovo insegnante (che somiglia al Pasolini degli anni '40, idealista ed educatore disinteressato). Questi è diverso dai suoi predecessori, che per interessi coloniali inculcavano negli alunni neri una cultura nozionistica e non critica. Il giovane insegnante invece vuole renderli liberi, facendogli conoscere la politica e soprattutto i libri di narrativa e poesia, occidentali e africani. Davidson si appassiona un po' alla nuova cultura (reale) ma tornato al villaggio ripiomba nelle crudeltà e irrazionalità in cui è stato educato dal padre selvaggio e finisce per partecipare a un massacro di soldati dell'ONU suoi ex amici. Nuovamente a scuola, si chiude in un silenzio disperato e da psicosi, per un conflitto interiore rimosso da cui però esce maturato grazie al professore che gli mette dinanzi la dura realtà. Diventerà un poeta, guarendo se stesso, anche se prima ha un ultimo raptus durante il quale ferisce l'insegnante. E' evidente il messaggio pasoliniano: solo attraverso la cultura, con una conoscenza storica e artistica, grazie alla ragione (non borghese, che è una ragione malata e classista, ma una ragione che scende a dar luce a tutti i moti dell'animo) possiamo sottrarci al regresso dell'irrazionale o del caos o della follia, facendo di questi ultimi contenuto di espressione:

"Esprimersi significa guarire. Non importa se l'espressione è confusa, e se la speranza in fondo all'espressione è solo il «sogno di una cosa», come dice Marx."(5)

La ricotta (1962-3) è un episodio del film RoGoPaG (dalle iniziali dei suoi registi: Rossellini, Godard, Pasolini e Gregoretti). Durante la lavorazione di un film sulla Passione di Cristo, diretto da un regista (marxista privilegiato in quanto intellettuale) interpretato da Orson Welles, la comparsa Stracci soffre la fame, dopo aver regalato il suo cestino alla famiglia sottoproletaria, e perduto un secondo cestino da lui sottratto con l'inganno ma divorato dal cane di un'attrice; dopo aver venduto il cane a un giornalista venuto per intervistare il regista, con le mille lire appena intascate corre a comprarsi della ricotta, ma lo chiamano per inchiodarlo sulla croce dove interpreta il ladrone buono. La fame aumenta sempre più. Le riprese vengono sospese perché le nuvole hanno coperto il sole e quando riesce finalmente a mangiare, non divora solo la ricotta ma gran quantità di altre vivande offertegli da amici divertiti dalla sua ingordigia. Chiamato di nuovo sulla scena della crocifissione, soffre adesso di una pericolosa indigestione, che lo porterà a morire veramente sulla croce, deludendo regista e produttore che si aspettavano la sua unica battuta, con cui doveva pregare Cristo di ricordarsi di lui quando sarebbe andato nel regno dei cieli. L'episodio fu sequestrato e incriminato per vilipendio della religione di Stato: Pasolini, inizialmente condannato a quattro mesi di reclusione con la condizionale, fu assolto in appello, poi la Cassazione annullò la sentenza di appello, pur dichiarando il reato "estinto per amnistia". Un altro capitolo assurdo nella storia della giustizia italiana e in quella personale dell'autore.

La rabbia (1962-3) è un film di montaggio di immagini tratte da cinegiornali e documentari, con commento in prosa e in versi, a rappresentare gli avvenimenti decisivi della storia dalla fine della seconda guerra mondiale sino alla morte di Marilyn Monroe, suicida a Hollywood il 4 agosto 1962. Alla parte pasoliniana segue quella di Giovanni Guareschi, che non piacque assolutamente a Pasolini per la sua mediocrità e il suo qualunquismo. Infatti il film fu un fiasco e determinò una controversia tra Guareschi, che accusava il nostro di essere un marxista conformista, e Pasolini che gli rinfacciava la sua facile demagogia. In effetti tutta la lotta politica e ideologica di Pasolini era rivolta contro il conformismo, sia di destra che di sinistra, con i suoi effetti di colonialismo, fame, razzismo e infine neocapitalismo con la cultura di massa e la televisione in particolare, a provocare la "morte dell'anima". Anche la cultura, non superficiale, fondata sul formalismo e priva di anima, fatta per accontentare il gusto estetico degli sfruttatori, è un prodotto di rinuncia all'impegno reale. Il mondo sembra votato alla distruzione e Marylin Monroe, forse, col suo suicidio ha indicato una strada possibile per controbattere all'alienazione massmediatica, che ha reso volgare la sua bellezza, prima umile e quindi autentica. Oppure saranno i voli cosmici a rendere fratelli gli uomini, donando loro l'unica rivoluzione ormai praticabile, che è quella del rinnovamento dello spirito, attraverso l'abbandono della violenza e della guerra. Dobbiamo comprendere che l'autore non aveva il dono della prescienza; tentava, con l'ausilio della ragione, analisi di previsione su più strade (di qui la sua voluta ambiguità politica, tra marxismo e simpatie per i radicali italiani, in particolare Pannella: tuttavia non smise mai di dichiararsi marxista). Altri vedono in lui contraddizioni insanabili, che invece una "ontologia dell'attualità" potrebbe chiarire, nel senso che non si dà verità se non nella storia, a seconda dell'epoca in cui si opera e si vive, e le verità, inoltre, sono plurali e prospettiche, come le previsioni sul futuro: la perentorietà di talune affermazioni del nostro nascono da una esigenza di persuasione nei confronti di un lettore o spettatore che deve maturare.

Comizi d'amore (1963) è un film-inchiesta sulla sessualità degli italiani, con interviste a persone di ogni età e cultura appartenenti a classi sociali diverse, intercalate da interviste a gente della cultura e dello spettacolo. L'immagine che se ne trae è quella di una Italia divisa in due, non ancora unificata dal consumismo: nei settentrionali c'è più apertura mentale anche se non manca una certa confusione rispetto al sesso; nei meridionali invece permane l'idea della donna che deve arrivare vergine al matrimonio e del cornuto che deve lavare col sangue l'offesa al suo onore. La gente dello spettacolo ha col sesso un rapporto improntato al godimento (più o meno nascosto) e al successo, mentre gli uomini di cultura (intellettuali e poeti) sono gli unici in fondo ad avere risolto la scissione tra carne e spirito, grazie alla loro consapevolezza. Infatti, è proprio in nome della conquista di una maggiore consapevolezza che Pasolini termina il film augurando a una giovane coppia che sta per sposarsi: "Al vostro amore si aggiunga la coscienza del vostro amore."(6)

Il Vangelo secondo Matteo (1963-4) riproduce fedelmente il testo sacro di duemila anni fa. L'occasione nasce dall'entusiasmo suscitato dal cattolicesimo progressista di papa Giovanni XXIII, che favorì il dialogo tra credenti e non credenti, tra cristiani e marxisti. Il regista andò personalmente in Palestina per conoscere i luoghi in cui visse e operò Cristo (da questa esperienza il documentario Sopraluoghi in Palestina). Il paesaggio gli sembrò totalmente mutato, modernizzato, inadeguato alle scene del Vangelo, che fu girato quindi nell'Italia meridionale (tra gli altri posti, nei mitici Sassi di Matera). Si servì della consulenza di sacerdoti cattolici della Pro Civitate Christiana di Assisi, in particolare di don Andrea Carraro. Scrisse su "Il Giorno" del 6 marzo 1963, nell'articolo intitolato Una carica di vitalità:

"la figura di Cristo dovrebbe avere, alla fine, la stessa violenza di una resistenza: qualcosa che contraddica radicalmente la vita come si sta configurando all'uomo moderno, la sua grigia orgia di cinismo, ironia, brutalità pratica, compromesso, conformismo, glorificazione della propria identità nei connotati della massa, odio per ogni diversità, rancore teologico senza religione."(7)

Uccellacci e uccellini (1965-6) è una favola ideo-comica che vede due protagonisti in Totò e Ninetto Davoli. Il primo episodio, tagliato poi nel film, rappresenta la crisi del razionalismo di fronte alla realtà più assoluta del Terzo Mondo ancorato al mito e alla religione (quindi all'irrazionale). Un domatore di circo tenta invano di civilizzare un'aquila (che rappresenta l'irrazionalismo terzomondista) ma finisce per convertirsi lui alla visione più ampia e libera che gli insegna tacitamente l'animale, sino a volare via come se fosse lui stesso aquila. Il film come è in realtà, narra metaforicamente di due eventi importanti in quegli anni: 1) il rapporto della religione nei confronti della lotta di classe (e qui vediamo Totò e Ninetto che impersonano due umili fraticelli mandati da San Francesco a portare la novella evangelica a falchi (i prepotenti) e a passeri (gli umili); dopo varie difficoltà la predicazione viene recepita, ma non messa in pratica, perché i due frati vedono la loro gioia iniziale per il successo avuto annullarsi di fronte all'episodio di un falco che uccide un passero: tornano dal santo, che dice loro di riprendere la predicazione e non cessarla mai); 2) l'altro evento rappresentato è la crisi del marxismo (il marxismo della Resistenza e degli anni Cinquanta), che non può far fronte alle novità del mondo, soprattutto all'omologazione del linguaggio. Tutti devono per forza parlare allo stesso modo per non essere esclusi dalla società, e quindi si comportano tutti come consumatori di prodotti (inutili) che gli tolgono l'anima. E' il corvo (che simboleggia Pasolini stesso) a voler portare alla coscienza di due popolani, Totò e Ninetto, padre e figlio, la crudeltà del nuovo mondo universalmente imborghesito; inoltre c'è il problema dell'esplosione demografica e della fame nelle aree sottosviluppate. Cosa deve fare un marxista? Rinnovarsi, fare della non-violenza (come volevano Gandhi e papa Giovanni XXIII) lo strumento migliore per rispondere all'altrui violenza; capire inoltre l'urgenza di una risacralizzazione del mondo (attraverso la cultura non superficiale e il mito), contro la volgarità desacralizzante del neocapitalismo. I due uomini, scocciati dalla "predica" di questo mite corvo, lo divorano dopo averlo arrostito:

"Il corvo «doveva essere mangiato», alla fine: questa era l'intuizione e il piano inderogabile della mia favola. Doveva essere mangiato, perché, da parte sua, aveva finito il suo mandato, concluso il suo compito, era, cioè, come si dice, superato; e poi perché, da parte dei suoi due assassini, doveva esserci l'«assimilazione» di quanto di buono - di quel minimo di utile - che egli poteva, durante il suo mandato, aver dato all'umanità [...]."(8)

Viene da pensare che Pasolini, scrivendo queste righe, prevedesse, almeno come possibilità, la sua fine cruenta.

La terra vista dalla luna (1966) è il terzo episodio del film di più registi Le streghe. Attori protagonisti sono Totò (Ciancicato, il padre), Ninetto Davoli (Baciù, il figlio) e Silvana Mangano (Assurda, la nuova moglie di Ciancicato). Subito dopo la tumulazione del cadavere della prima moglie, Ciancicato, d'accordo col figlio, comincia la ricerca affannosa di una sostituta, una Donna Ideale; dopo vari tentativi, la trova in Assurda, una bellissima sordomuta, che sposerà e si rivelerà perfetta donna di casa. Ma i due, diabolicamente, non si accontentano della situazione economica e, per reperire i soldi necessari per una nuova casa, convincono Assurda a fingere una minaccia di suicidio, a causa della miseria, da sopra il Colosseo, al fine di far accorrere gente; così Ciancicato, con l'aiuto del figlio e di alcuni compari, organizza una colletta tra la folla, impietosendola con il racconto delle sventure di povertà della moglie. Succede però l'imprevisto: Assurda, mentre rappresenta a gesti il simulato dolore, scivola su una buccia di banana e muore cadendo. Nuovamente al cimitero, per seppellire anche quest'altra moglie, i due sono disperati. Tuttavia, al loro ritorno a casa, troveranno il fantasma di Assurda. Superato il terrore iniziale, convinti dai gesti di quella che spiega che lei è in tutto e per tutto come era da viva, buona moglie madre e casalinga, ritornano felici. L'episodio termina con queste parole scritte su un cartello: "Morale: essere vivi o essere morti è la stessa cosa" come a dire che chi sceglie di dare preminenza alla vita materiale rispetto a quella spirituale, è come se fosse morto.

Che cosa sono le nuvole? (1967) è il terzo episodio del film di più registi Capriccio all'italiana. Totò e Ninetto impersonano rispettivamente Jago e Otello. E' una rivisitazione in chiave tragicomica dell'Otello di Shakespeare, interpretato in una finzione da teatro di burattini. Alla fine il pubblico, indignato dalla cattiveria di Jago e dalla dissennatezza di Otello, impedisce a quest'ultimo di strozzare Desdemona (Laura Betti); poi uccide sia Jago che Otello, consola Desdemona e porta in trionfo l'altro personaggio, Cassio (Franco Franchi), bello e innocente. I due uccisi vengono portati via nel "mondo esterno", nel dolore generale di tutti gli altri burattini. L'immondezzaro (interpretato da Domenico Modugno) li trasporta a una discarica, cantando la famosa canzone scritta da Pasolini che ha lo stesso titolo dell'episodio. Qui i due si accorgeranno, vedendo le nuvole, della bellezza del creato. Morale (non detta) della favola è secondo me che non bastano le parole per guarire da un folle amore (cui si riferisce la canzone) ma occorre una esperienza di "morte", il passaggio forse doloroso da una vita a un'altra, una totale conversione dell'anima.

Edipo re (1967) è la storia di Edipo, tratta dalle tragedie di Sofocle. Nonostante i riferimenti autobiografici, nel film, ai luoghi di infanzia dell'autore, dobbiamo concludere inaspettatamente che il complesso edipico non appartenesse, almeno nella maturità, alla persona Pasolini ma al personaggio che lui interpretava. E' come se prendesse su di sé mali e complessi non attribuibili tanto a lui (che evidentemente li aveva superati con un lungo lavoro introspettivo, anche grazie al coraggio della sua indipendenza), ma a noialtri; e lo facesse per stimolarci a diventare consapevoli di quei mali e complessi per superarli. Sono costretto a contraddirmi (rispetto alle idee che mi ero fatto prima) alla luce di queste parole illuminanti:

"Non ho mai sognato di fare l'amore con mia madre. Neanche sognato. Se mai potrei rimandare i due o tre lettori, che mi son rimasti fedeli, ad alcuni versi dell'Usignolo della Chiesa Cattolica,

...il sogno in cui mia madre / s'infila i miei calzoni.

Ho piuttosto sognato, se mai, di fare l'amore con mio padre (contro il comò della nostra povera camera di fratelli ragazzi), e forse anche, credo, con mio fratello; e con molte donne di pietra."(9)

Cosa si evince da tutto ciò? Millenni di violenze (soprattutto sulle donne) hanno creato, per contrasto, nell'inconscio degli uomini una femminilizzazione (Pasolini che fa l'amore in sogno con i componenti maschi della sua famiglia; cfr. anche PASOLINI AUTORE DI TEATRO, quando parlo della tragedia Affabulazione) mentre le donne si sono via via mascolinizzate (Pasolini che sogna la madre che s'infila i suoi calzoni; le donne di pietra).

E' questo passato violento che ci fa nascere già in una condizione di colpa, con un destino assurdo come quello di Edipo, e un "destino oltre il destino" che ci chiede di porre rimedio, ognuno come può, a un male di cui ignoriamo la nostra responsabilità.

Appunti per un film sull'India (1967-8) è un breve filmato in cui l'autore presenta la sua idea di un film sull'India e intervista vari personaggi per capire come farlo: vuole trattare dei temi della fame, della sovrappopolazione e della religione, destinata forse ad essere distrutta dall'industrializzazione o forse no se gli indiani sapranno mantenersi a livello della loro millenaria cultura. Nel finale dice che l'India dà tutto; e si chiede: "Ma che cosa?" Azzardo una risposta affermando che l'India può insegnare a noi occidentali a rinunciare alla prepotenza, alla volontà di potenza. Il film, che doveva narrare le vicende della famiglia di un maharaja, non fu realizzato.

Teorema (1968) è la versione cinematografica del romanzo omonimo (v. PASOLINI NARRATORE 1962-1975). Al solito l'autore e regista ebbe guai giudiziari che si risolsero con l'assoluzione.

La sequenza del fiore di carta (1967-9) è il breve episodio pasoliniano del film Amore e rabbia girato da più registi separatamente. Si ispira al racconto evangelico del fico maledetto e fatto di colpo seccare da Gesù perché non aveva frutti (v. Matteo 21,18-22). Il protagonista è un sottoproletario di nome Riccetto colto in una sua innocente passeggiata per le strade di Roma. Dio gli parla ma lui non vuole ascoltarlo. Dio parla lo stesso e gli dice che non può rimanere inconsapevole di fronte ai mali del mondo, alle guerre e alle ingiustizie. Allora, giacché Riccetto continua ad ignorarlo, lo fa morire proprio come Gesù ha fatto col fico.

Porcile (1968-9) è un film con due episodi ("Orgia" e "Porcile") che si intersecano, mentre nella sceneggiatura sono nettamente distinti. Il primo parla di un emarginato al tempo del Medioevo, che vaga per la campagna cibandosi di bisce, vermi, erbacce e radici, fino a quando non si imbatte in un soldato, lo uccide e dopo averne staccato la testa e averla buttata nella bocca di un vulcano, si ciba della sua carne; altri si aggregano a lui e formano una piccola tribù di cannibali, con relativa prole. Il Re della zona (non precisata) manda i soldati per catturare la banda servendosi di un'esca umana (un ragazzo e una ragazza completamente nudi). I colpevoli vengono quindi processati e condannati a morte: la società dei normali vuole presto dimenticare questa vicenda angosciante per l'ordine sociale, considerata la sua carica di contestazione globale sul piano esistenziale.

Il secondo episodio è invece la trasposizione cinematografica della tragedia omonima (v. PASOLINI AUTORE DI TEATRO, quando parlo di Porcile).

Appunti per un'Orestiade africana (1968-9) è un filmato interpretato dall'autore per raccogliere idee (intervistando degli studenti africani) per un futuro film - che non girò - in cui avrebbe dovuto ambientare in un'Africa degli anni '60 le tragedie eschilee del ciclo di Oreste, che peraltro tradusse in italiano.(10)

L'ingresso della democrazia formale nel Continente nero, al posto delle vecchie istituzioni tribali tiranniche e irrazionali, viene da lui visto come un dono della Ragione, che inoltre trasforma l'irrazionalità da distruttiva a fonte di "liberazione del simbolico" attraverso poesia, fantasia e sentimento. L'irrazionalità, che è retaggio del nostro passato animale e preistorico, non va rinnegata, ma deve convivere con la ragione. Le tradizioni culturali arcaiche, pur nate in un clima di ingiustizia e arbitrio, dovranno rimanere nella memoria degli africani, a difenderne la specifica identità contro ogni tentativo di omologazione da parte dell'Occidente.

Medea (1969), interpretata dalla eccelsa Maria Callas, intima amica del nostro, riprende l'omonima tragedia di Euripide. Giasone deve conquistare il Vello d'oro, la mitica pelle di caprone simbolo dell'assolutezza e della perennità del regno umano. Organizza una spedizione, detta degli Argonauti, e giunge nella Colchide dove si trova il Vello. Aiutato da Medea, la figlia del re, che per amore di lui tradisce la sua essenza magico-religiosa arcaica, sottrae il Vello e torna con i compagni e con la donna in patria. Qui però ha altri guai e devono fuggire a Corinto, dove vivranno con i due figli che sono intanto nati. Ma l'ambizioso Giasone vuole sposare Glauce, la figlia di Creonte re di Corinto, e quindi ripudia Medea. Quest'ultima per vendetta, ucciderà Glauce fingendo di regalarle una veste di nozze in realtà intrisa di un veleno scorticante, e i due figli, pugnalati, con i cui cadaveri brucerà nella casa sotto gli occhi impotenti di un Giasone a cui non resta ormai più niente al mondo. Medea rappresenta la civiltà religiosa arcaica, mentre Giasone l'ateo successo mondano. Sono due mondi incompatibili, che possono stare insieme solo per atto di amore, di vero amore, a cui verrà meno Giasone a causa della sua ambizione, scatenando così la terribile regressione di Medea al suo passato arcaico e sanguinario (che non ha mai superato, in realtà).

San Paolo (progetto, tra il 1968 e il 1974, per un film non girato) traspone la vicenda della predicazione dell'Apostolo dei gentili nel XX secolo, a cominciare dalla Parigi degli anni 1938-44, durante l'occupazione nazista: Paolo è un collaborazionista appartenente alla ricca borghesia reazionaria, fanatico e ingenuamente crudele, con una punta di disperazione nell'animo, che lo porterà a convertirsi sulla strada di Barcellona, chiamato da Gesù; si farà cristiano e apostolo, laddove i cristiani equivalgono ai partigiani della Resistenza. Le parole del santo sono le stesse delle sue Lettere. L'attualizzazione della vicenda vuole significare che Paolo è a noi contemporaneo, sia come santo (e qui il giudizio di Pasolini è positivo, in quanto il nascente cristianesimo distrugge la società schiavista romana) sia come organizzatore di chiese (e qui il giudizio, invece, è negativo, perché la religione istituita è fatale che scenda a compromessi con il potere e diventi ipocrita). Dice Paolo:

"Il nostro è un movimento organizzato... Partito, Chiesa... chiamalo come vuoi. Si sono stabilite delle istituzioni anche fra noi, che contro le istituzioni abbiamo lottato e lottiamo. L'opposizione è un limbo. Ma in questo limbo già si prefigurano le norme che faranno della nostra opposizione una forza che prende il potere: e come tale sarà un bene di tutti. Dobbiamo difendere questo futuro bene di tutti, accettando, sì, anche di essere diplomatici, abili, ufficiali. Accettando di tacere su cose che si dovrebbero dire, di non fare cose che si dovrebbero fare, o di fare cose che non si dovrebbero fare. Non dire, accennare, alludere. Essere furbi. Essere ipocriti. Fingere di non vedere le vecchie abitudini che risorgono in noi e nei nostri seguaci - il vecchio ineliminabile uomo, meschino, mediocre, rassegnato al meno peggio, bisognoso di affermazioni, e di convenzioni rassicuranti. Perché noi non siamo una redenzione, ma una promessa di redenzione. Noi stiamo fondando una Chiesa."(11)

E' stato Satana a imitare la voce di Dio e a mandare Paolo a fondare la Chiesa. Prova di ciò sono tutti i delitti che durante la storia ha commesso questa istituzione: papi criminali, compromessi col potere, soprusi, violenze, repressioni, ignoranza, dogmi, e da ultimo il delitto più grave, cioè l'accettazione passiva del potere consumistico irreligioso che non sa che farsene di religione e morale e riduce la Chiesa a folclore, rispettandola solo come alleato politico e potere finanziario. Il messaggio autenticamente religioso (di santità) di Paolo non viene accettato da nessuno, in fondo, e chi lo accetta o è un santo pure lui o è un ipocrita che lo accetta solo apparentemente; gli intellettuali, sia di destra che di sinistra, col loro razionalismo, non hanno capito niente di religione, ignorando che la vera sapienza viene da Dio, data in premio a chi vive concretamente d'amore. Il Paolo pasoliniano è destinato ad essere ucciso da un sicario nella New York neocapitalistica, che rappresenta la versione contemporanea dell'originario potere imperiale romano dell'epoca in cui visse il santo. Il potere non cambia mai essenza, è sempre spietato, qualunque nome esso si dia, e finisce sempre con l'uccidere in mille modi coloro che si oppongono ad esso.

"Trilogia della vita": Il Decameron (1970-1), I racconti di Canterbury (1971-2) e Il Fiore delle Mille e una notte (1973-4). Elogio della vitalità del sesso, gioioso e liberatorio, specie se visto con l'occhio rivolto al passato, quando la sessualità veniva repressa dal potere e quindi poteva essere realmente goduta come vitale scandalo, leggerezza e felicità. I popolani (ed anche alcuni borghesi) di Boccaccio o di Geoffrey Chaucer (autore dei Racconti di Canterbury) e alcuni principi e principesse arabi rappresentano un modello di comportamento che, più della cultura o della politica, ha del rivoluzionario, in quanto esso contraddice l'ipocrisia della classe dominante. Quando però Pasolini si accorge che i suoi tre film vengono strumentalizzati e imitati in versioni pornografiche, capisce che tutto è finito anche nel mondo del sesso, capisce che il sesso è divenuto un obbligo sociale voluto dal potere neocapitalistico che non sa più cosa farsene di Chiesa e moralità. Il regista così smette di fare film sul sesso liberatorio e girerà Salò, sul sesso come rapporto sadomasochistico tra vittime e carnefici, entrambi colpevoli.

Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975) è la trasposizione al tempo della Repubblica di Salò della vicenda narrata da Sade nel suo famoso romanzo, in cui parla di quattro potenti (un duca, un banchiere, un presidente di tribunale e un monsignore) che riducono a cose dei giovani prigionieri maschi e femmine, seviziandoli per eccitarsi. Questo ultimo film girato da Pasolini vuole dire due cose: 1) il sesso è divenuto obbligo sociale (imposto dal consumismo) e quindi non è più gioioso e liberatorio, ma triste e cattivo; 2) il sesso è metafora del rapporto tra potenti (carnefici) e sfruttati (vittime): è chiaro che né i carnefici né le vittime sono innocenti, perché appartengono alla stessa educazione all'avere, al possedere e al distruggere, non quindi all'amare e all'essere. Infatti le vittime nel film, salvo rare eccezioni, non hanno scrupoli nel tradirsi a vicenda per evitare le punizioni, regolamentate dai quattro perversi. Queste alcune "perle" dalla trascrizione delle battute dei quattro privilegiati:

"Tutto è buono quando è eccessivo."(12)

"Non c'è nulla di più contagioso del male..."(13)

"In tutto il mondo non c'è voluttà che lusinghi più i sensi che il privilegio sociale..."(14)

A questo fascismo crudele e volgare, Pasolini non può che contrapporre i versi di Ezra Pound dai Cantos (canto 99°):

"La parola paterna è compassione; / filiale, devozione; / la fraterna, mutualità. / Del tosatel la parola è rispetto."(15)

Porno-Teo-Kolossal (solo progettato a livello di trattamento tra il 1967 e il 1975, ma mai sceneggiato né girato) avrebbe dovuto essere l'ultimo film di Pasolini, che poi si sarebbe occupato solo della scrittura del romanzo Petrolio. Ma non fece in tempo a realizzarlo, dopo Salò, perché morì ammazzato. Il protagonista, Epifanio (Eduardo De Filippo), è un moderno Re Magio, cioè uno che si intende di calcoli astronomici legati ad eventi della storia. Egli vive a Napoli con la sua famiglia, proprio quando si annuncia la venuta del Messia per portare felicità e pace nel mondo. Trovata conferma della notizia nei suoi calcoli astronomici, si mette in viaggio col servo romano disincantato Nunzio (Ninetto Davoli), seguendo la Stella Cometa che indica la direzione del nord. Arrivano a Sodoma, una città rappresentata dalla Roma degli anni cinquanta. Questa città incarna l'Utopia della mitezza: tutto scorre tranquillo e non ci sono violenze, anche se c'è già una prima assurdità: i cittadini sono quasi tutti omosessuali, e i pochi eterosessuali vengono tollerati ma in realtà relegati a un solo quartiere. Un solo giorno all'anno, durante la Festa della Fecondazione, maschi e femmine si uniscono per dar vita a nuovi figli. Per il resto dell'anno, solo rapporti omosessuali (eccetto la minoranza di eterosessuali). Fatto sta che l'ordine viene violato da un ragazzino e una ragazzina che, prima omosessuali, scoprono ora misteriosamente l'attrazione l'uno per l'altra e si uniscono nel loro amore proibito. Scoperti, vengono arrestati e processati: saranno condannati a una pena non mortale ma comunque esemplare: lei dovrà essere posseduta dalle tre lesbiche più calorose della città; mentre lui dai tre giovani più superdotati. In seguito nella casa di Lot avvengono cose che contraddicono la mitezza della città: un gruppo di teppisti omosessuali pretende di sodomizzare degli ospiti dell'eterosessuale Lot. Questi si oppone, offrendo le sue figlie alle lesbiche. Nascono tafferugli. La Cometa si sposta ed Epifanio e Nunzio fuggono via, seguiti da Lot e le figlie, mentre Sodoma brucia distrutta dai fulmini mandati in punizione da Dio. In treno, le tre ragazze ubriache si approfittano del padre Lot, altrettanto ubriaco, mentre lui ripete loro di non voltarsi indietro.

All'arrivo a Gomorra (una Milano della metà degli anni settanta), in stazione un gruppo di teppisti costringe le tre a voltarsi per possederle in quella maniera, e le ragazze sono trasformate in statue di sale. Gomorra rappresenta l'Utopia della violenza e dell'erotismo eterosessuale estremo: le donne vengono violentate per strada. Le situazioni di violenza costringono i cittadini a girare armati, e un napoletano offre in vendita delle armi anche ai nostri due protagonisti. In città non si ammette alcuna diversità, specie quella omosessuale, repressa nel sangue. Anche qui avviene misteriosamente una trasgressione: un operaio è attratto improvvisamente da uno studentello; i due si appartano nel bagno di un cinema ma scoperti vengono arrestati e condannati a una morte orrenda: il ragazzo ad essere seppellito vivo, l'uomo invece viene legato a una corda appesa a un elicottero, ucciso con un colpo di pistola alla gola e poi elevato sulla folla in modo che essa venga bagnata dal suo sangue. Dio si adira e colpisce la città con la peste, che fa morire tutti, tranne Epifanio e Nunzio che fuggono via seguendo la Cometa che si sposta ancora verso nord.

Giunti a Numanzia (Parigi), sono fermati dall'esercito tecnoclericofascista che assedia la città, governata da un socialismo democratico. I fascisti destinano i fermati a campi di concentramento, ma i due vengono salvati da un napoletano, cuoco del Capo militare, che li sceglie come sguatteri. La Cometa si sposta verso il centro della città. I due, per seguirla, fuggono ed entrano a Numanzia, dove vengono arrestati dalle truppe resistenti. Mentre sono chiusi in prigione, un poeta propone il suicidio collettivo di tutti i cittadini per non finire schiavi dei fascisti. Dopo un referendum che mette ai voti la proposta, tutti si uccidono tranne - paradossalmente - il poeta, che non ne ha il coraggio, ed Epifanio e Nunzio rinchiusi in prigione. I tre vengono accolti dai fascisti. Il poeta diventa amico del Capo di questi ultimi, mentre Epifanio e Nunzio sono promossi a camerieri. Accade però l'imprevisto: il poeta litiga col Capo fascista per una questione di puntiglio e viene giustiziato.

La Cometa ora si sposta verso oriente. I due personaggi prendono l'aereo diretti a Ur (il luogo dove finalmente dovrebbero trovare il Messia). Qui però vengono depredati (dal solito napoletano furbo) del dono per il Bambino (un presepio di valore) e alla fine scoprono che è passato troppo tempo: la spelonca in cui è nato Cristo è vuota e il Messia è già morto e dimenticato. Epifanio, stremato e deluso, muore. Un angelo si separa dal corpo di Nunzio e porta con sé l'anima del defunto in cielo, ma qui non trovano nemmeno il Paradiso. I due guardano la Terra sotto di loro ed Epifanio comprende che "è stata una illusione quella che l'ha guidato attraverso il mondo - ma è stata quell'illusione che, del mondo, gli ha fatto conoscere la realtà..."(16) La realtà non è riducibile ad alcuna ideologia né politica né religiosa, ma è caotica, assurda e imprevedibile. Dalla Terra provengono ora canti rivoluzionari. Epifanio fa:

"«Maaaaaa... e mo'?». Nunzio si è, chissà perché, un po' racconsolato: «Embè, sor Epifà» risponde. «Nun esiste la fine. Aspettamo. Qualche cosa succederà»."(17)

4.3. Altre opere per il cinema

Compose commenti per diversi documentari girati da altri registi. Qui ricordiamo solo il finale di Caschi d'oro (1960) di Mario Gallo, in cui rivolgendosi ai giovani figli dei ricchi, dice:

"Ah, ma è inutile parlarvi. La vostra vita, che voi credete così realistica, è una continua fuga dalla realtà, che è coscienza e luce di pensiero, e non avido conformismo. E' inutile parlarvi, tanto è chiaro che non mi risponderete mai."(18)

Nel 1974, nello Yemen per girare Il Fiore delle Mille e una notte, gira pure un documentario in forma di appello all'UNESCO, Le mura di Sana'a, per la salvaguardia dell'antica città. In Italia, dice, si può fare ben poco ormai: i paesaggi architettonici del passato sono irrimediabilmente rovinati dalle strutture moderne, ma nel Terzo mondo c'è ancora possibilità di impedire lo scempio urbanistico voluto sia da agenti neocapitalistici sia da quelli comunisti sulla base di una falsa idea di benessere; la tutela del patrimonio artistico, invece, è una risorsa non solo come rispetto della cultura del passato ma anche in vista di profitti turistici. L'UNESCO nel 1984 dichiarò Sana'a "patrimonio dell'umanità" e negli anni successivi, col contributo del Fondo Pasolini di Roma, lanciò una campagna internazionale per la conservazione e il restauro della città.

Pasolini si impegnò anche come sceneggiatore per film di altri registi:

La donna del fiume (1954) di Mario Soldati; Le notti di Cabiria (1957) di Federico Fellini, che gli chiese di scrivere i dialoghi in dialetto romano e le parti che trattano della malavita; Viaggio con Anita (1957-8), trattamento per Federico Fellini, ma il film lo fece solo nel '78 Mario Monicelli aggiornando il materiale pasoliniano; La notte brava (1959) di Mauro Bolognini; Puzza di funerale (1959), ma il titolo del film fu poi Morte di un amico diretto da Franco Rossi (Pasolini ritirò la sua firma dalla sceneggiatura, a causa delle modifiche che vi apportarono, e mantenne solo quella per il soggetto); La nebbiosa (1959-60), collaborazione alla sceneggiatura, da cui solo nel '63 i registi Gian Rocco e Pino Serpi ricavarono il film violento Milano nera; Il bell'Antonio (1960), sceneggiatura tratta dall'omonimo romanzo di Vitaliano Brancati, per il regista Mauro Bolognini; La dolce vita (1960), alcuni episodi rielaborati da Pasolini su richiesta del regista Fellini, che poi però non ne fece granché uso nel suo famoso film; La giornata balorda (1960) di Mauro Bolognini; Ostia (1970) di Sergio Citti; L'histoire du soldat (1973), un film che avrebbe dovuto dirigere Giulio Paradisi, ma poi rimase irrealizzato, con una sceneggiatura scritta a più mani (Pasolini, Sergio Citti e Giulio Paradisi), avente come tema la "mutazione antropologica" degli italiani ad opera della televisione; Storie scellerate (1973) di Sergio Citti.




Gli attori nel cinema
di Pier Paolo Pasolini
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di Massimiliano Valente

Scorrendo la filmografia di Pier Paolo Pasolini, da Accattone a Salò, è facile notare come nella scelta degli attori Pasolini abbia avuto una certa propensione per la non-professionalità. Accattone, opera prima di Pasolini, ha come attori dei ragazzi di strada, come lo stesso Franco Citti che interpreta il protagonista.
Non mancheranno nei film successivi delle presenze di attori professionisti: la Magnani in Mamma Roma, Totò in Uccellacci e uccellini, Terence Stamp, Silvana Mangano, Massimo Girotti, Laura Betti in Teorema, Maria Callas in Medea, Ugo Tognazzi. Jean Pierre Léaud, Alberto Lionello in Porcile, Orson Welles nella Ricotta, Silvana Mangano in Decameron, Alida Valli e Carmelo Bene in Edipo re : saranno comunque scelte dettate da imposizioni dell'editore che Pasolini è costretto ad accettare, seppur non entusiasticamente.
La ragione della preferenza di attori non professionisti deriva dalla concezione tutta personale di Pasolini rispetto al cinema, quale cinema di poesia. Un cinema che si fonda sulla soppressione delle regole decodificate e sull'inevitabile trasgressione stilistica.
Pasolini, Citti, Ninetto, EttoreVengono così superati gli schemi classici dei film rivolti al grande pubblico, ovvero i film "popolari". Nel cinema di poesia l'autore deve essere l'unico protagonista, con la sua poesia in forma di cinema appunto, che lo spettatore deve riuscire a cogliere. In questo contesto Pasolini chiede ai propri attori non una collaborazione, ma un totale abbandono, di modo che possa plasmare le figure presenti nel film secondo la propria visione. Il cinema del poeta-regista tende, da un punto di vista tecnico, a un ritmo molto veloce, se non nervoso, fatto di inquadrature e sequenze più brevi rispetto ai film "classici". Anche la recitazione degli attori risulta polverizzata, riducendosi a brevi battute e un ricorso frequente alla mimica per sottolineare uno stato d'animo. In sede di montaggio Pasolini (il regista-poeta) procede ad una ulteriore frammentazione delle sequenze, così da accentuare la polverizzazione delle inquadrature.
L'attore professionista, quale elemento fondamentale del cinema "classico", mal si presta ad una trasposizione nel cinema di poesia. La sua professionalità, ossia la sua impostazione da "Accademia" lo porta a intervenire, con la propria recitazione, nelle scelte stilistiche del film. In parole povere risulta meno "manipolabile" rispetto a un attore non professionista, influenzando, in ultima analisi, il percorso poetico del regista-poeta.
L'attore non professionista garantisce, quindi, la completa libertà artistica del regista del cinema di poesia, il quale però, viene gravato dal peso della responsabilità della scelta degli attori giusti. Pasolini sceglie i suoi attori senza provini (tranne la parte del Cristo nel Vangelo secondo Matteo) abbandonandosi al proprio istinto:

"La ricerca dell'attore è la cosa che più mi prende perché in quel momento io verifico se le mie ipotesi sono state arbitrarie: cioè se ad una fisionomia che ho immaginato, corrisponde effettivamente il carattere che immagino debba avere. Quando ho bisogno di giovani attori, che siano scanzonati, furbi, smaliziati, ma ancora un po' incerti e un po' buffi, non cerco i giovani attori appena usciti dall'Accademia che rifacciano magari a stento il verso a quelli che invece vivono in una borgata di periferia e sono realmente così ! Più semplicemente vado appunto in una borgata romana e cerco dei ragazzi che interpreteranno, in un certo senso, se stessi. Quando invece ho bisogno di qualcuno che reciti una parte più complessa allora faccio ricorso all'attore professionista, ma riduco questa scelta sempre al minimo indispensabile".

L'unico modo che un attore non professionista ha di esprimersi in un film è quello di essere il più spontaneo possibile, cioè di rimanere se stesso. Nel momento in cui è necessario, secondo il regista-poeta, sottolineare un determinato momento della recitazione si ricorre ad espedienti tecnici, quali un movimento di macchina o piuttosto una rielaborazione in fase di montaggio.
Un caso emblematico è rappresentato dall'attore, Enrique Irazoqui, che ha impersonato il Cristo ne Il vangelo secondo Matteo, scelto il giorno precedente all'inzio delle riprese e al quale Pasolini non impone una recitazione da personaggio mistico, da asceta, ma un movimento sulla scena naturale, secondo il suo modo di essere nella vita di tutti i giorni.
Anche le istruzioni che Pasolini impartisce ai propri attori sono estremamente semplici e generiche.
Quindi il ricorso ad attori non professionisti persegue una doppia finalità:
1. la assoluta libertà che il non professionismo degli attori lascia al regista-poeta, libero di perseguire attraverso la manipolazione dei personaggi il risultato poetico che si prefigge;
2. l'opportunità di servirsi di personaggi che non debbano far altro che impersonare se stessi.
In riferimento a quest'ultimo punto si pone un problema di tipo antropologico che Pasolini spiegò con queste parole:

"Per i film proletari basta andare per la strada e si trova subito uno disposto a dare se stesso veramente, totalmente, senza mediazioni, senza paure, senza pudori, senza il senso del ridicolo, generosamente insomma. Mentre l'idea di prendere un industriale milanese che facesse l'industriale milanese in un film è praticamente irrealizzabile, e così la moglie di un industriale, così i figli di un industriale; quindi c'è fatalmente, nella scelta degli attori, un certo compromesso".

Se, quindi, nei film sul sottoproletariato è possibile, anzi indispensabile, la scelta di attori non professionisti, al contrario in un film che tratti di ambienti borghesi è necessario servirsi di attori professionisti. Di una recitazione nel senso classico del termine. Da questa convizione pasoliniana si evince la mitizzazione del sottoproletariato, vista come incorrotta, sincera e genuina classe sociale, contrapposta alla ipocrita e falsa classe borghese. Così, Pasolini, per rappresentare una realtà borghese quale quella di Teorema, si serve di attori professionisti (la Mangano, Girotti, Terence Stamp, Laura Betti).
Il modo di comportarsi di Pasolini in scena è diverso se ha a che fare con attori professionisti o con non professionisti. Questi ultlimi vengono lasciati liberi di esprimersi nel modo a loro più naturale. Le scene non vengono ripetute più di due o tre volte perché; primo, essendo una interpretazione spontanea è quasi sempre la prima a riuscire meglio; secondo, perchè non avendo una tecnica di recitazione difficilmente riusciranno a migliorarsi nei ciak successivi.
Con gli attori professionisti Pasolini deve mutare approccio. La loro professionalità li porta a sviscerare il personaggio nei minimi particolari, ad avere un quadro di riferimento completo, e a preferire delle riprese continue a quelle polverizzate e brevi tipiche dei film di Pasolini.
Un altro punto fondamentale del cinema di poesia è il doppiaggio degli attori. Spesso a Pasolini è stato rimproverato di non servirsi, nei suoi film, della presa diretta, ossia della colonna sonora ripresa sincronicamente all'immagine in corso di registrazione.
Pasolini ha sempre rifiutato questo genere di impostazione tecnica, tipica del cinema di autore di quegli anni, preferendo il doppiaggio dei suoi attori.
Pasolini giustifica questa scelta evidenziando la differenza linguistica presente nel nostro paese। Cita gli autori francesi (Renoir) i quali si servono di una lingua comune a tutti i francesi e assimilata in secoli di centralismo burocratico. In Italia, costellata da decine di dialetti, ciò non è possibile se non servendosi di una lingua sostanzialmente falsa, quale l'italiano imposto dal centro politico. Essendo, di solito, molto eterogeneo il cast dei film di Pasolini, è necessario riportare a unità linguistica le varie recitazione, dando così una impostazione omogenea della pellicola. Spesso, poi, un attore che ha la presenza fisica giusta, un volto un atteggiamento, può avere una voce del tutto inadatta, problema a cui si può ovviare solo con il doppiaggio.

La musica nei film
di Pier Paolo Pasolini
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. Con qualche cenno riguardante anche
alcune scelte pittoriche del poeta-regista
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di Angela Molteni
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E finalmente arrivò il suono...

Affiancare un commento sonoro alla proiezione di pellicole cinematografiche fu un evento che ebbe i natali contemporaneamente all’avvento della stessa arte cinematografica. Ma come!? – si obietterà – se fino alla seconda metà degli anni Venti si produssero e si proiettarono nelle sale solo film muti? Ebbene: mai come in questo genere di film l’accompagnamento musicale si rivela indispensabile. Proiettare un film muto a un pubblico senza un tale accompagnamento sarebbe come rappresentare un balletto escludendo l’orchestra (o anche solo uno strumento che fosse in grado di eseguire, per esempio, una melodia con il suo bravo accompagnamento in tre quarti). Se questa tesi non è convincente, provate a visionare un film muto senza alcun accompagnamento sonoro: vi sentirete irrimediabilmente condannati ad una forzata, sgradevole, insopportabile sordità; non solo: il film muto provocherà in voi una strana e indecifrabile sensazione di angoscia che nessun valido elemento estetico della pellicola sarà in grado di neutralizzare.
Chi ha visto, per esempio, il film di Milos Foreman Amadeus sa esattamente di che cosa sto parlando. Riassumo brevemente: il sovrintendente dei compositori, "concorrente" di Mozart alla Corte dell’imperatore d’Austria Giuseppe II, impedì, allo scopo di boicottare il giovane compositore salisburghese, l’esecuzione di musica da ballo all’interno dell’opera teatrale che era in fase di allestimento. Mozart in quei giorni stava lavorando alle prove di Nozze di Figaro e per tale opera aveva tra l’altro composto un balletto: dovette subire l’imposizione del sovrintendente. Lasciò inalterati interpreti e scenario (i ballerini eseguivano quindi sul palcoscenico passi di danza) e fece contemporaneamente tacere l’orchestra. L’imperatore, invitato ad assistere alla prova generale, protestò vivacemente per l’incongruenza e l’insensatezza di quanto stava vedendo e, ottenutene spiegazioni dallo stesso Mozart, ordinò che la musica fosse immediatamente "reintegrata".
A Parigi, dal 1886, il Cabaret du Chat Noir divenne il luogo deputato alla proiezione di immagini animate, accompagnate da un pianoforte sulla cui tastiera si avvicendarono anche le mani illustri di Eric Satie e di Claude Debussy. Nel 1892 Émile Reynaud presentò al pubblico del Musée Grevin il suo "Théâtre-Optique", dotato di alcune "pantomime luminose" in cui cani, clown, acrobati e cavallerizze si muovevano al ritmo di un’orchestrina, creando le premesse della sincronizzazione.
Dalla preistoria alla storia: i manifesti che pubblicizzavano le "sedute" del Cinématographe Lumière al Grand Café del Boulevard des Capucines riportavano il nome della maison du piano nonché quello del pianista-compositore. Il più delle volte i pianisti si sedevano a fianco dello schermo e suonavano, improvvisando i brani a seconda del carattere delle scene.
In Unione Sovietica, nel 1928, Sergej Ejzenstejn – il primo grande "cineasta" della Federazione delle Repubbliche Socialiste (Pasolini amò profondamente il cinema di Ejzenstejn, insieme a quello di Charlie Chaplin) – progettò l’introduzione in Urss del cinema sonoro. Il 20 luglio di quell’anno il regista e due suoi colleghi, Grigorij Aleksandrov e Vsevolod Pudovkin, pubblicarono un documento che passerà alla storia del cinema come il manifesto dell’asincronismo, i cui presupposti teorici sono:

  • dare priorità assoluta, in termini di importanza, al montaggio quale "mezzo fondamentale e unico, in virtù del quale il cinema ha raggiunto un alto livello espressivo";
  • evitare di dare vita a una "produzione pseudo-letteraria con rinnovati tentativi d’invasione teatrale";
  • orientare la realizzazione di pellicole sonore a una "non coincidenza tra immagine visiva e immagine sonora: questo sistema", sostenevano i registi, "porterà alla creazione di un nuovo contrappunto orchestrale".
Dagli anni Venti in poi, dunque, in Europa, e soprattutto in Unione Sovietica e in Francia, il cinema ricorse frequentemente a musicisti che raggiunsero grande fama non solo per le rispettive collaborazioni cinematografiche, quali: Sergej Prokofiev (la cui musica fu congeniale proprio al cinema di Ejzenstejn), Juri Šaporin, Aram Cachaturian, Lev Švarz, Gavril Popov, Isaak Dunaevskij, Dmitrij Šostakovich in Urss; Maurice Jaubert, Georges Auric, Jacques Ibert, Darius Milhaud, Arthur Honegger in Francia.
Un cenno particolare su Prokofiev: scrisse per Ejzenstejn le musiche per Aleksandr Nevskij, Ivan il Terribile, La congiura dei Boiardi. "Come credete che un normale musicista scriverebbe un pezzo per paesaggi autunnali?", dirà il regista, nel 1946, durante una lezione di cinema. "Prenderà lo stormire delle foglie, poi passerà qualche venticello, una certa trepidazione. Prokofiev, invece, parte da una percezione molto complessa dell’immagine visiva. Per lui anche le diverse sfumature di colore giocano un ruolo nel passaggio all’immagine musicale. Qualsiasi musicista è capace di trasporre in musica uno stormire di foglie. Ma per tradurre il ritmo della tonalità di giallo dall’inquadratura nella corrispondente tonalità musicale, ci vuole ben altro talento [...] Quando noi registi abbiamo, per esempio, una fortezza in campo, non ci limitiamo a riprenderla di fronte, ma facciamo altrettanto con la torre, con le entrate eccetera, e dalla composizione delle diverse prospettive risulta infine una immagine globale. Allo stesso modo lavora con la musica Prokofiev ".
Tutto ciò significa, oltretutto, che la musica non deve essere mai al servizio del cinema e viceversa. Infatti, sono entrambe espressioni artistiche che utilizzano linguaggi non verbali e che tuttavia sono assolutamente differenti e agiscono in modo diverso e indipendente sulla percezione.
Scriverà Pasolini: "I valori che essa [la musica] aggiunge ai valori ritmici del montaggio sono in realtà indefinibili, perché essi trascendono il cinema, e riconducono il cinema alla realtà, dove la fonte dei suoni ha appunto una profondità reale, e non illusoria come nello schermo.
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Primi approcci di Pier Paolo Pasolini alla musica e alle arti figurative

Nel corso della seconda guerra mondiale, Pasolini – studente-laureando a Bologna – si recava sempre più di frequente a Casarsa, luogo di origine della madre, dove soggiornava spesso e per lunghi periodi, e dove aveva molti amici. Nei primi mesi del 1943 la cerchia degli amici si ampliò, con l’arrivo a Casarsa di una violinista slovena, Pina Kalc, rifugiatasi in casa di parenti a seguito delle vicende belliche. E, mentre gli accadimenti di quella terribile guerra disperderanno gli altri amici, Pina, rimasta sola, si dedicherà al tentativo di instaurare con Pier Paolo un’amicizia esclusiva.
Di lei, Pasolini scriverà:
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"[...] La conobbi nel febbraio del ’43. Subito dopo mi divenne necessaria per il suo violino ; mi suonò dapprima il moto perpetuo di Janácek che divenne quasi un motivo del nostro incontro, e si ripeté in molte occasioni. La ricordo perfettamente nell’atto di suonarlo, con la gonna blu e la camicetta bianca. Ma presto cominciò a farmi udire Bach: erano le sei sonate per violino solo, cui emergevano, ad altezze disperate, la Ciaccona (A) e il Preludio della III; il Siciliano (B) della I. Le centinaia di sere che abbiamo trascorso insieme, dal ’43 all’estate del ’45 quando, finita la guerra ripartì per la Jugoslavia, mi danno la solita disperazione dell’inesprimibile, del troppo unico; tuttavia resta la musica come qualcosa di solido, di avvenuto senza equivoco e che riassume tutta la nostra tempestosa amicizia [...]"
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Nei momenti di calma, in assenza delle incursioni aeree con allarmi che si ripetevano di giorno e di notte, Pina andava ogni giorno in casa Pasolini e dava lezioni di violino a Pier Paolo. Dopo le lezioni eseguivano insieme qualche duetto portato a termine con visibile emozione. Infine Pina suonava da sola Bach.
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"Era soprattutto il Siciliano che mi interessava", narra Pasolini, "perché gli avevo dato un contenuto, e ogni volta che lo riudivo mi metteva con la sua tenerezza e il suo strazio, davanti a quel contenuto: una lotta cantata impassibilmente tra la Carne e il Cielo, tra alcune note basse, velate, calde, e alcune note stridule, terse astratte. Come parteggiavo per la Carne! Come mi sentivo rubare il cuore per quelle sei note, che per un’ingenua sovrapposizione di immagini, immaginavo cantate da un giovanetto siciliano dal petto bronzeo e ardente. E come invece sentivo di rifiutarmi alle note celesti!"
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Nel 1944, Pasolini scriverà uno Studio sulle sonate di Bach con molti paragoni letterari, quasi una ricerca di equivalenti, come, per esempio, alcuni passaggi musicali di una sonata e alcuni versi poetici.Frattanto, all’Università di Bologna – ove Pasolini otterrà la laurea con lode discutendo la tesi Antologia della lirica pascoliana: introduzione e commenti (7) – le lezioni di storia dell’arte medievale e moderna sono tenute da Roberto Longhi ; nel 1941 Longhi tiene i corsi "Sui fatti di Masolino e Masaccio". Pasolini li frequenta con entusiasmo. La formazione di Pasolini, avvenuta alla scuola di un grande storico dell’arte quale fu appunto Longhi, gli permetterà non solo di costruire con grande gusto figurativo le inquadrature dei suoi film, ma anche di orientare il suo stesso pensiero.
Longhi affermava, per esempio, che nei quadri di Caravaggio gli apostoli e i santi sono rappresentati da personaggi umili, dei ceti popolari; allo stesso modo Pasolini dichiarerà di avere scoperto che nel mondo della piccola delinquenza e dei ragazzi di strada, nel mondo del sottoproletariato, ci sono effettivamente dei "santi". Oltre alla pittura, Longhi amava il cinema (andrà a Parigi appositamente per vedere La grande illusione di Jean Renoir e Il grande dittatore di Chaplin) e trasmetteva ai giovani allievi anche il "gusto" per la nascente arte cinematografica. Longhi, infine, oltre ad avere avuto, per quanto riguarda le arti figurative, molta influenza sulla formazione di Pasolini, rimarrà suo "consigliere" e critico quando il Poeta affronterà le sue opere cinematografiche.
Nei suoi soggiorni a Casarsa, Pasolini frequenta spesso una sala cinematografica di San Vito al Tagliamento: proprio in occasione di una della sue puntate al cinema incontra un giovane pittore, Federico De Rocco. Vanno a dipingere insieme e Pasolini viene introdotto alle tecniche pittoriche: dipinge paesaggi "alla De Pisis", sentendo di accingersi a conquistare un suo stile e una sua tavolozza. "I quadri appena terminati vanno a riempire le pareti del ‘camerone’ e quell’estate sono più di una dozzina. Quadri e poesie nascono sugli stessi fondali friulani". Più avanti, Pasolini stringerà stretti rapporti di amicizia con un altro pittore, Giuseppe Zigaina, con il quale rimarrà in contatto per tutta la vita e che sarà chiamato in qualche caso anche ad avere un ruolo nei suoi film.
Giungeranno presto, per Pasolini, gli anni dell’insegnamento nella piccola scuola organizzata nella sua stessa abitazione ("il camerone" di cui parla il cugino Nico Naldini [a sinistra, con Pasolini, nella foto a fianco scattata a Casarsa]) in Friuli, delle prime pubblicazioni poetiche, e poi della fuga da Casarsa, con la madre Susanna, destinazione Roma, dopo la denuncia per atti osceni e corruzione di minorenni dell’ottobre 1949. Vera e propria vittima di persecuzioni dovute a quegli inestirpabili pregiudizi che tendevano, e tendono, a emarginare quando non a criminalizzare chi era, ed è, diverso – ho proprio l’impressione che ben poco sia mutato a oltre vent’anni di distanza dalla tragica scomparsa del Poeta – tale denuncia fu la prima di una lunga serie di vicende giudiziarie che costituiranno per Pasolini un vero e proprio calvario.
A Roma, dopo alterne vicende, dapprima di miseria e di umile lavoro come insegnante in una scuola privata, quindi di lenta e progressiva affermazione, come scrittore prima, come regista cinematografico poi, Pasolini chiuderà definitivamente il violino nell’astuccio, ma gli rimarrà nel cuore "la musica come qualcosa di solido", e di ciò si rintracceranno agevolmente i segnali significativi nelle scelte musicali "istintive" che costituiranno una parte non secondaria della sua opera cinematografica. Continuerà invece [vedi foto qui sopra] ad usare tele e pennelli: infatti, durante la lavorazione dei suoi film, spesso Pasolini utilizzerà disegni e schizzi, soprattutto per indicare la disposizione dei personaggi e degli elementi paesaggistici nelle inquadrature.

1961, l’anno di Accattone

Dopo alcune collaborazioni alle sceneggiature di film diretti da registi già affermati, quali Soldati, Fellini, Bertolucci e altri, Pasolini inizia la lavorazione della prima pellicola cinematografica con un soggetto da lui scritto e diretto: Accattone.
"Accingendosi a realizzare il suo primo film Pasolini ha idee ben chiare per quanto riguarda la musica che avrebbe adoperato. È convinto – come regola generale a cui rimarrà sostanzialmente fedele, sia pure con qualche eccezione – che è preferibile usare musica di repertorio (cioè brani classici o leggeri di autori noti) piuttosto che farla espressamente comporre. Questo perché, secondo Pasolini, è più efficace una buona musica già collaudata piuttosto che una mediocre partitura che, il più delle volte, è un cattivo rifacimento di temi e motivi già noti." (10)
Elsa Morante, l’amica più cara in quei giorni, ha una ricca collezione di dischi che sarà da allora in poi una preziosa miniera cui Pasolini farà ricorso per realizzare il commento musicale dei suoi film.In Accattone il commento musicale è costituito in gran parte da brani di Johann Sebastian Bach; vi è poi l’utilizzo di canzoni popolari e di stornelli con testi parodiati e una scena in cui esplode, bellissimo, il blues di William Primrose St James Infirmary.
Scrive Pasolini: "La Passione secondo Matteo di Bach, nel momento della rissa di Accattone, assume questa funzione estetica. Si produce una sorta di contaminazione fra la bruttezza, la violenza della situazione, e il sublime musicale. È l’amalgama (il magma) del sublime e del comico di cui parla Auerbach (11) [...] La musica si rivolge allo spettatore e lo mette in guardia, gli fa capire che non si trova di fronte a una rissa di stile neorealista, folklorica, bensì a una lotta epica che sbocca nel sacro, nel religioso [...] Io sentivo, sapevo, che dentro questa degradazione c’era qualcosa di sacro, qualcosa di religioso in senso vago e generale della parola, e allora questo aggettivo, ‘sacro’, l’ho aggiunto con la musica. Ho detto cioè che la degradazione di Accattone è, sì, una degradazione, ma una degradazione in qualche modo sacra, e Bach mi è servito a far capire ai vasti pubblici queste mie intenzioni (12)".
Il Coro finale della Passione secondo Matteo (C) viene inserito dal regista sia nella scena sopra ricordata sia nelle ultime inquadrature del film, quando si compie il tragico destino di Accattone e sopravviene la morte, unica vera libertà concessa dalla società a uomini "privi di dignità" che ignorano (come Accattone) o rifiutano (come Pasolini) le leggi della "ragione dominante".
Sempre in Accattone, il secondo movimento del Concerto brandeburghese n. 2 (D) di Bach viene utilizzato per creare forte contrasto nei confronti delle immagini che frattanto scorrono sullo schermo, quelle cioè in cui la prostituta Maddalena viene malmenata nella radura dell’Acqua Santa dai ragazzi di vita amici del suo sfruttatore. E Pasolini chiarisce:

" [...] Questo aver contaminato una musica coltissima, raffinata come quella di Bach con queste immagini, corrisponde nei romanzi all’unire insieme il dialetto, il gergo della borgata, con un linguaggio letterario che per me è di derivazione proustiana o joissiana. È l’ultimo elemento di questa contaminazione che rimane così un po’ esteriore nel film. Quanto alla scelta, è una scelta molto irrazionale, perché prima ancora di pensare ad Accattone quando pensavo genericamente di fare un film, pensavo che non avrei potuto commentarlo altrimenti che con la musica di Bach: un po’ perché è l’autore che amo di più; e un po’ perché per me la musica di Bach è la musica a sé, la musica in assoluto [...] Quando pensavo ad un commento musicale, pensavo sempre a Bach, irrazionalmente, e cosi’ ho mantenuto, un po’ irrazionalmente, questa predilezione iniziale".

Anche la formazione pittorica di Pasolini entra in gioco, a partire da Accattone: "Come modello formale pensa alla grande tradizione pittorica italiana del Tre-Quattrocento, a Giotto, a Masaccio e quindi all’esigenza di rappresentare i suoi personaggi frontalmente, fortemente chiaroscurati, statuari". E, riguardo al luogo prescelto per le ultime inquadrature del film, Pasolini scriverà:

"[...] era soprattutto su Olevano [una località del sud del Lazio] che puntavo, come luogo dipinto da Corot. Ricordavo le sue montagne leggere e sfumate, campite come tanti riquadri di sublime, aerea garza contro un cielo del loro stesso colore."

Nei primi giorni di aprile 1962 hanno inizio le riprese di Mamma Roma in un prato di Cecafumo alla periferia di Roma, sparso di ruderi antichi e limitato da una cintura di enormi caseggiati bianchi. In questo film Pasolini ha scelto di commentare alcune scene utilizzando musica di Vivaldi, ritenendola conosciuta, familiare al grande pubblico.

In P.P. Pasolini, Per il cinema, Milano, Mondadori, 2001 la filmografia contenuta nel Tomo secondo relativa al film Mamma Roma riporta le seguenti indicazioni: Musica: Antonio Vivaldi: Largo in mi minore dal Concerto RV 443; Larghetto in sol minore dal Concerto RV 481; Largo in fa maggiore dal Concerto RV 540 - P 266.

Sulla scelta del protagonista, Ettore, dirà Pasolini:

"Ho visto Ettore Garofalo mentre stava lavorando come cameriere in un ristorante dove una sera ero andato a mangiare, [...], esattamente come l’ho rappresentato nel film, con un vassoio di frutta sulle mani come la figura di un quadro di Caravaggio".

Ancora dal punto di vista pittorico, la scena iniziale del film (banchetto di nozze), costituisce un forte richiamo a molte classiche rappresentazioni pittoriche rinascimentali dell’Ultima cena (dal Ghirlandaio a Leonardo da Vinci).

Le esperienze successive, fino al progetto del Vangelo

Tra il 1962 e il 1964 più che una successione di film vi è un intreccio di progetti. Durante un convegno ad Assisi, Pasolini, casualmente, legge il Vangelo di san Matteo e scopre quanta parte del mondo contadino dell’età di Cristo sia finita nelle pagine del testo dell’evangelista Matteo, "il più rivoluzionario perché il più realista". Da questa lettura trae una riflessione: la storia di Cristo è fatta di due millenni di interpretazione cristiana; tra la realtà storica è oggi si è creato lo spessore del mito e questo mito è già un’idea trascinante per farne un film.
Alfredo Bini, produttore di Accattone e di Mamma Roma, è attratto dall’idea e accoglie la proposta di realizzare un film sul Vangelo. Chiede però a Pasolini di dare la precedenza a un film a episodi i cui registi sono Roberto Rossellini, Jean-Luc Godard e Ugo Gregoretti. Pasolini realizzerà il proprio episodio, La ricotta. Un brano musicale molto significativo che il regista inserirà nel film è il Dies Irae attribuito a Tommaso da Celano, (1190 ca - 1260), musicista oltreché discepolo e biografo di san Francesco d’Assisi [clicca sull'immagine per ottenerne un ingrandimento e ascoltare il Dies Irae]. Nella Ricotta è anche notevolmente appropriata la sottolineatura dell’atmosfera grottesca di alcune scene, ottenuta con l’inserimento di un brano verdiano, "Sempre libera degg’io" dalla Traviata, deformato nel tempo, nella dinamica, nell’uso filologicamente non ortodosso degli strumenti, tutti elementi trattati nelle scene del film con intenti ironici e per qualche verso evocativi delle comiche degli anni Venti e Trenta.
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Sugli intendimenti figurativi di Pasolini, scrive Antonio Bertini: "[...] All’uso semplificato e rigoroso degli obiettivi 50 e 75, impiegati in Accattone, Pasolini aggiunge il pancinor o zum. Si tratta di un obiettivo, come si sa, che permette di passare (senza soluzione di continuità) dall’inquadratura di un dettaglio o di un primo piano fino a un totale o a un campo lungo. [...] Sembra quasi ci sia la volontà – da parte del regista – di togliere all’immagine filmica l’impressione di tridimensionalità, di profondità di campo (dovuta soprattutto all’immagine in movimento, al movimento all’interno dell’inquadratura) per ricondurla in un ambito figurativo e pittorico. Il richiamo a Masaccio (che ritorna spesso nelle dichiarazioni della sua tecnica) non è casuale। L’obiettivo viene paragonato a un pennello nelle mani di un pittore, un pennello leggero e agile che, tuttavia, ha la forza di rendere greve, massiccia la materia, con una forte accentuazione del chiaroscuro.

La musica nei film
di Pier Paolo Pasolini
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. Con qualche cenno riguardante anche
alcune scelte pittoriche del poeta-regista
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di Angela Molteni
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Il Vangelo secondo Matteo

Nel mese di aprile 1964 le prime scene del film furono girate in provincia di Viterbo, tra i massi del torrente Chia (che "diventerà" per l’occasione il fiume Giordano nel quale Cristo riceverà il battesimo). La troupe si trasferì quindi in Lucania: la parte antica di Matera (i Sassi) si trasformò in una suggestiva Gerusalemme. Betlemme venne "ricostruita" in un villaggio pugliese. Tra le montagne di Crotone furono effettuate le riprese delle scene del Golgota.
Per Il Vangelo secondo Matteo Pasolini effettuò la scelta della musiche con la collaborazione di Elsa Morante. Il regista utilizzò in questo caso, vista la sua dichiarata predilezione per Bach, alcuni brani dalla Passione secondo Matteo con i quali il compositore tedesco aveva ripercorso lo stesso cammino che Pasolini avrebbe intrapreso nel film (e, in un certo senso, con lo stesso spirito che ispirerà il film di Pasolini: l’evocazione e la meditazione della morte).
Dalla Passione secondo Matteo di Bach, oltre al Coro già udito in Accattone, Pasolini utilizza ripetutamente, nel Vangelo, un’Aria (E), originariamente per voce di contralto e orchestra, qui nella versione solo strumentale rielaborata da Ennio Morricone – nelle predicazioni in cui Cristo, una prima volta, parla delle beatitudini (beati coloro...) e ancora, quando raccomanda l’osservanza dei comandamenti oppure l’abbandono delle ricchezze (è più facile che un cammello...); quando si reca a pregare nell’Orto del Getsemani dopo avere rassicurato gli Apostoli (...vi precederò in Galilea...) e subito dopo ammonisce Pietro (...mi rinnegherai...); nel momento in cui prega il Padre perché allontani da lui la morte atroce che l’attende; quando viene processato, condannato a morte, deriso.
Nel film, un rilievo notevole è dato anche al Gloria della Missa Luba congolese la cui citazione si può ascoltare in apertura del film (già dai titoli di testa); allorché Giuseppe torna alla sua povera abitazione dopo che l’Angelo lo ha illuminato circa il motivo della gravidanza di Maria; quando Cristo compie il primo miracolo; all’entrata in Gerusalemme e nell’ultima scena del film (la tomba è vuota, Cristo è risorto). Un altro compositore di cui si servì Pasolini per il suo Vangelo è Mozart: la Maurerische Trauermusik, K 477 (Musica funebre massonica), rende perfettamente l’atmosfera di "presagio" che si percepisce dopo che Gesù ha reclutato gli Apostoli (...pecore in mezzo ai lupi..., non sono venuto a portare la pace...); in seguito fa da commento alla salita al Calvario.
Vi è anche un’efficace citazione di Ejsenstejn/Prokofiev (Aleksandr Nevskij) allorché i soldati di Erode compiono la strage degli innocenti e nel momento della terribile fine (la decollazione) provocata da Erodiade e Salomè a Giovanni il Battista. Nel film sono compresi inoltre brani originali di Luis Enrique Bacalov (nelle scene degli indemoniati e di Cristo che prega nell’orto di Getsemani) e di Anton Webern, spirituals e cori russi.
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Sui riferimenti pittorici vi è da dire anzitutto come sia noto che la scelta di Enrique Irazoqui per la parte di Gesù nel Vangelo sia stata casuale: alla prima occhiata, Pasolini fu certo di aver trovato il "suo" Cristo: lo stesso volto bello, fiero, umano, distaccato dei Cristi dipinti da El Greco. Nei molteplici primissimi piani immobili si può osservare un riferimento ai ritratti di trequarti tipici del tardo Quattrocento (Masaccio, ma anche Carpaccio); per quanto riguarda i farisei e gli scribi, già per le loro vesti sono simili alle figure degli affreschi di Piero della Francesca. Pasolini ha rappresentato Maria incinta appunto come nella figurazione della Madonna del Parto di Piero della Francesca: un volto semplice con le palpebre semichiuse, la ripresa frontale, e un arco sullo sfondo. Un’altra scena ispirata a Piero della Francesca è quella nella quale è ripreso Il battesimo di Cristo. Al posto dei tre angeli di Piero della Francesca vengono posti, sulla sinistra, tre giovani di campagna. Altri elementi che suggeriscono espliciti richiami a Piero della Francesca sono costituiti inoltre dalla ripresa dei farisei, vestiti tutti in modo uguale, dalla carrellata nel baratro roccioso, dal lungo primo piano del volto di Gesù. Molte scene del Vangelo, poi, si "rinviano" l’una all’altra: è la medesima operazione compiuta in cicli di affreschi del Trecento, tra cui quelli di Giotto, nei quali lo scenario paesaggistico e architettonico viene riproposto dall’una all’altra scena. Da Giotto, poi, derivano le raffigurazioni della fuga in Egitto e dell’entrata di Cristo a Gerusalemme. Nella scena di Cristo nell’orto del Getsemani vi sono infine attinenze, sia di postura, sia paesaggistici alle opere omonime di Mantegna e di Giovanni Bellini.
Rispondendo a un intervistatore sulle differenze e affinità tra Vangelo, Pasolini dichiarerà: "Il [...] contrasto [...] viene fuori nei riferimenti alla pittura: in Accattone c’è soltanto un elemento figurativo, Masaccio, e forse nel fondo Giotto e la scultura romanica, invece nel Vangelo ci sono numerose fonti: Piero della Francesca, negli abiti dei farisei, la pittura bizantina, la faccia di Cristo [...]"

Una nuova stagione nel cinema di Pasolini

Uccellacci e uccellini segnerà un ulteriore passaggio nella storia del cinema di Pier Paolo Pasolini: dai lavori di carattere popolare a opere più problematiche, che culmineranno in Teorema.
Alla fine di aprile 1965 Pasolini pubblica su "Vie Nuove" tre soggetti cinematografici e invita i lettori a fargli conoscere i loro pareri e osservazioni: tali soggetti sono "L’aigle", "Faucons et moineaux", "Le corbeau", che dovrebbero costituire i temi per un film a episodi intitolato Uccellacci e uccellini. In ottobre iniziano le riprese del film che, già dalla sceneggiatura, si è trasformato però in un film unitario; sarà organizzato del tutto artigianalmente, con un finanziamento minimo e nessun compenso per il regista.
Inizia, con Uccellacci e uccellini, una proficua collaborazione di Pasolini con Ennio Morricone [vedi foto qui sotto], Ennio Morriconeche collaborerà alla realizzazione delle musiche e al coordinamento musicale del film e anche di successive pellicole pasoliniane: Teorema, Decameron, I racconti di Canterbury, Il fiore delle Mille e una notte, Salò o le centoventi giornate di Sodoma. L’idea di aprire e chiudere il film con dei titoli cantati fu di Pasolini, che scrisse i testi; "la piccola ballata interpretata da Domenico Modugno (F) potrebbe essere considerata, per la ricchezza di soluzioni e di allusioni ironiche e autoironiche a modi, stili, timbri, una sintesi estrema del comporre di Morricone nel cinema".
Vi sono poi nel film, oltre a un bellissino blues dello stesso Morricone, due citazioni mozartiane, dal Flauto magico (duetto Papageno-Pamina (G); Aria di Sarastro (H), risolte gradevolmente dalla rielaborazione di Morricone, con degli assolo di violino e con l’uso di un’ocarina.
È pure citata, sempre nella rielaborazione di Morricone, la canzone partigiana, tratta da un motivo popolare russo, Fischia il vento (I) che si ode subito prima della sequenza dei funerali di Togliatti. A loro volta, i funerali di Togliatti, con quella vasta, corale e commossa partecipazione popolare, ma anche con la presenza di personaggi noti dell’epoca, sono un richiamo a un celebre, omonimo dipinto di Renato Guttuso.
Il sodalizio tra il musicista Ennio Morricone e il regista ci permette di avere una indicazione più che significativa, che riportiamo qui di seguito, sulla "filosofia" che informava la sensibilità di Pasolini rispetto all’inserimento della musica nei film.

"La musica di un film può anche essere pensata prima che il film venga girato (così come se ne pensano i volti dei personaggi, certi attacchi di montaggio ecc.): ma è solo nel momento in cui viene materialmente applicata alla pellicola, che essa nasce in quanto musica del film. Perché? Perché l’incontro e l’eventuale amalgama tra musica e immagine, ha caratteri essenzialmente poetici, cioè empirici. Ho detto che la musica si ‘applica’ al film: è vero, in moviola l’operazione che si compie è questa. Ma l’‘applicazione’ può essere in vari modi, secondo varie funzioni.
"La funzione principale è generalmente quella di rendere esplicito, chiaro, fisicamente presente il tema o il filo conduttore del film. Questo tema o filo conduttore può essere di tipo concettuale o di tipo sentimentale. Ma per la musica ciò è indifferente: e un motivo musicale ha la stessa forza patetica sia applicato a un tema concettuale che a un tema sentimentale. Anzi, la sua vera funzione è forse quella di concettualizzare i sentimenti (sintetizzandoli in un motivo) e di sentimentalizzare i concetti. La sua è quindi una funzione ambigua (che solo nell’atto concreto si rivela e viene decisa): tale ambiguità della funzione della musica è dovuta al fatto che essa è didascalica e emotiva, resta un fatto misterioso, e difficilmente definibile. Io posso dire empiricamente che ci sono due modi per ‘applicare’ la musica alla sequenza visiva, e quindi di darle ‘altri’ valori.
"C’è un’‘applicazione orizzontale’ e un’‘applicazione verticale’. L’applicazione orizzontale si ha in superficie, lungo le immagini che scorrono: è dunque una linearità e una successività che si applica a un’altra linearità e successività. In questo caso i ‘valori’ aggiunti sono valori ritmici e danno un’evidenza nuova, incalcolabile, stranamente espressiva, ai valori ritmici muti delle immagini montate. L’applicazione verticale (che tecnicamente avviene allo stesso modo), pur seguendo anch’essa, secondo linearità e successività, le immagini, in realtà ha la sua fonte altrove che nel principio; essa ha la sua fonte nella profondità. Quindi più che sul ritmo viene ad agire sul senso stesso. [...]
"In altre parole: le immagini cinematografiche, riprese dalla realtà, e dunque identiche alla realtà, nel momento in cui vengono impresse su pellicola e proiettate su uno schermo, perdono la profondità reale, e ne assumono una illusoria, analoga a quella che in pittura si chiama prospettiva, benché infinitamente più perfetta. Il cinema è piatto, e la profondità in cui si perde, per esempio, una strada verso l’orizzonte, è illusoria. Più pratico è il film, più questa illusione è perfetta. La sua poesia consiste nel dare allo spettatore l’impressione di essere dentro le cose, in una profondità reale e non piatta (cioè illustrativa).
"La fonte musicale – che non e’ individuabile sullo schermo – e nasce da un ‘altrove’ fisico per sua natura ‘profondo’ – sfonda le immagini piatte, o illusoriamente profonde, dello schermo, aprendole sulle profondità confuse e senza confini della vita."
Pasolini, nell’autunno del 1966 è in Marocco per un sopralluogo di ambientazione di Edipo re. Risponde a una intervista di Alberto Arbasino: "Un Edipo da girare in fondo al Marocco (in un’architettura arcaica e meravigliosa, senza pali della luce e quindi senza tutte le fatiche del Vangelo girato in Italia). Certi rosa e verdi stupendi; berberi quasi bianchi, però ‘alieni’, remoti, come doveva essere il mito di Edipo per i greci: non contemporaneo, fantastico [...]".
Il regista compie poi un nuovo viaggio in Marocco per proseguire la ricerca dei luoghi più adatti alle scene di Edipo re e, al ritorno, partecipa con Capriccio all’italiana a un nuovo film a episodi, Che cosa sono le nuvole?, ancora con Totò e Ninetto Davoli: tale episodio sarà caratterizzato, tra l’altro, da una canzone (che ha lo stesso titolo dell’episodio cinematografico) (L) musicata e cantata da Domenico Modugno su testo di Pasolini.
In Edipo re, ispirato ai capolavori di Sofocle Edipo re ed Edipo a Colono, che girerà tra aprile a luglio 1967, Pasolini affronta una volta per tutte il suo personale "complesso di Edipo".
Assegna ai suoi personaggi un linguaggio che è il risultato di una mescolanza di vari dialetti e, allo stesso modo, nel film, gli scenari e il commento musicale sono "costruiti", come in un puzzle, con frammenti di immagini e di suoni nordafricani, turchi, giapponesi e rumeni, tutte melodie molto ambigue, indefinibili, poiché potrebbero essere allo stesso tempo arabe, slave o greche. Il regista curerà personalmente il coordinamento musicale del film: spiegherà così la sua scelta di tali musiche: "Esse sono un poco fuori della storia. Come io desideravo fare di Edipo un mito, così desideravo una musica astorica, atemporale". Nell’estate del 1968 Pasolini gira con Ninetto Davoli un altro brevissimo film, La sequenza del fiore di carta, un episodio Amore e rabbia, e cura personalmente la scelta del commento musicale.
Qualche mese prima, in marzo, Garzanti pubblica il libro Teorema. Diverrà anche il soggetto dell’omonima pellicola cinematografica, presentata nel 1968. Chiamerà l’amico Zigaina a collaborare al film Teorema come consulente per il colore e per le tecniche pittoriche, e lo incaricherà di eseguire tutti i grandi disegni che nel film appaiono come opera di Pietro, il giovane pittore folgorato dall’amore per l'Ospite.
Tra i brani musicali che commentano Teorema, la cui scelta è curata dallo stesso Pasolini, spicca soprattutto il brano iniziale del Requiem (M), l’ultima composizione di Wolfgang Amadeus Mozart. Il commento musicale originale è elaborato da Ennio Morricone.
Mentre Teorema è ancora sotto sequestro per oscenità (sarà ritirato qualche giorno dopo la sua uscita dalle sale di proiezione), nel novembre 1968 Pasolini inizia le riprese di Porcile; le concluderà nel giro di un solo mese.
Il commento sonoro di Porcile, con musiche originali di Benedetto Ghiglia, interviene raramente nel dramma rappresentato nella pellicola, caratterizzando però assai efficacemente i due "mondi" che vi appaiono: quello contadino, con brani di sapore antico eseguiti prevalentemente con un flauto dolce; quello alto borghese con un quartetto d’archi che suona musica colta. In alcune scene Klotz-Lionello (con baffetti alla Hitler) suona voluttuosamente un’arpa e in altre scene sono proprio visualizzati quattro componenti di un quartetto d’archi in una delle grandi sale della ricca villa di Klotz.
Pasolini scriverà alcune Note su Porcile per parlare del film alla conferenza stampa di presentazione alla Mostra del cinema di Venezia. In tali note dirà, tra l’altro: "Il messaggio semplificato del film è il seguente: la società, ogni società, divora sia i figli disobbedienti che i figli né disobbedienti né obbedienti. I figli devono essere obbedienti e basta. Dipingere con la tecnica di Giovanni Bellini una bolgia infernale".
Un richiamo pittorico che mi è parso di individuare nel film è costituito dal notissimo Quarto stato di Pellizza da Volpedo (una delegazione di contadini si reca nella ricca villa del padrone-Klotz per riferire della orribile fine fatta, nel porcile, dal giovane Julian Klotz).
Tra maggio e agosto 1969 Pasolini effettua le riprese di Medea (interprete principale Maria Callas [vedi foto qui di seguito]), che riecheggia la tragedia di Euripide. Come nei film precedenti, il regista si propone di rappresentare le storture presenti nel mondo moderno rifacendosi alle analogie presenti in epoca antica. "Ho riprodotto in Medea tutti i temi dei film precedenti", dirà Pasolini. E proseguirà: "Specifico, per inciso, all’intenzione di quelli che la partecipazione della Callas indurrebbe in errore, che non mi riferisco affatto all’opera musicale di Cherubini. Su questo non c’è ambiguità possibile. Quanto alla pièce di Euripide, mi sono semplicemente limitato a trarne qualche citazione.[...]".
Tra i due personaggi principali, Medea e Giasone, non vi è mai dialogo: canti d’amore iraniani e antiche musiche giapponesi, indecifrabili e misteriose – le scelte per il commento musicale sono dello stesso Pasolini in collaborazione con Elsa Morante – "sostituiscono" le voci dei protagonisti.
Nel corso della lavorazione di Medea si diffusero "voci" di un idillio nato fra la Callas e Pasolini: tra loro si stabilì in realtà una profonda amicizia, destinata a durare negli anni anche dopo Medea. Pasolini riscoprirà, grazie all’amicizia con Maria Callas, la sua passione per il disegno e la pittura. Farà numerosi ritratti alla cantante, raffigurandola di profilo e utilizzando una "tecnica mista" che prevedeva di inserire nel disegno anche fiori e conchiglie.
Qualche mese prima di iniziare la lavorazione di Medea, Pasolini fece un viaggio in Uganda, in Tanzania e al lago Tanganika, per studiare l’ambientazione di Orestiade africana, una trasposizione "africana" della tragedia di Eschilo (il film non fu però mai realizzato). Durante tale viaggio, girò per la televisione italiana il documentario Appunti per un’Orestiade africana, con commento musicale di Gato Barbieri.
Il documentario fu così commentato da Moravia: "Diciamo subito che è uno dei più belli di Pasolini। Mai convenzionale, mai pittoresco, il documentario ci mostra un’Africa autentica, per niente esotica e perciò tanto più misteriosa del mistero proprio dell’esistenza, coi suoi vasti paesaggi da preistoria, i suoi miseri villaggi abitati da un’umanità contadina e primitiva, le sue due o tre città modernissime già industriali e proletarie. Pasolini ‘sente’ l’Africa nera con la stessa simpatia poetica e originale con la quale a suo tempo ha sentito le borgate e il sottoproletariato romano. E questo è già un avvio per comprendere il rapporto che egli cerca di stabilire tra l’Africa nera e la Grecia arcaica"

La musica nei film
di Pier Paolo Pasolini
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. Con qualche cenno riguardante anche
alcune scelte pittoriche del poeta-regista
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di Angela Molteni
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3/3
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La "trilogia della vita"

Dopo Medea, tre nuovi progetti, ispirati a importantissime opere letterarie di tre culture diverse, apriranno un nuovo capitolo della cinematografia pasoliniana. Pasolini stesso chiama i tre film "trilogia della vita", e spiega che si tratta di: " [...] film sulla fisicità umana e sul sesso. Questi film sono abbastanza facili, e io li ho fatti per opporre al presente consumistico un passato recentissimo dove il corpo umano e i rapporti umani erano ancora reali, benché arcaici, benché preistorici, benché rozzi, però tuttavia erano reali, e opponevano questa realtà all’irrealtà della civiltà consumistica".
Durante l’estate 1970 Pasolini scrive la sceneggiatura di dieci novelle dal capolavoro di Boccaccio, scelte tra quelle che hanno un equilibrio tra il tragico e il comico-burlesco e fa parlare i personaggi in napoletano. Quest’ultima scelta – di ambientare le novelle del Decameron a Napoli e dintorni – a mio parere è stato un vero e proprio "colpo di genio" del regista; in ciò dissento da quanto dichiarerà Morricone, che definirà "strana" la trasposizione del pasoliniano Decameron nel Sud Italia.
Nel Decameron Pasolini stesso assunse il ruolo di un allievo di Giotto. Sulle pareti che, insieme ad aiuti, dipingerà appaiono rifacimenti di opere giottesche. Si vestì come il "Vulcano" di Velasquez nel dipinto La fucina di Vulcano conservato al Museo del Prado: grembiule di cuoio e fascia bianca sulla fronte. Pasolini aveva visitato il museo madrileno nel 1964 e si era scoperto "tale e quale" al personaggio raffigurato nel quadro di Velasquez. Inoltre, venne a sapere che La fucina di Vulcano era stata dipinta dal pittore spagnolo a Roma ''con modelli tratti dalle borgate romane" e questo fu per Pasolini un ulteriore motivo di identificazione.
"Quanto Accattone e Mamma Roma erano film di contestazione sociale", dichiarerà il regista nel corso di una intervista, "espressione della volontà di presa di coscienza, tanto il Decameron rappresenta la mia nostalgia di un popolo ideale, con la sua miseria, la sua assenza di coscienza politica (è terribile dirlo, ma è vero), di un popolo che ho conosciuto quando ero bambino."
La musica, curata da Pasolini e arricchita da composizioni originali di Ennio Morricone, è costituita anche da antiche musiche napoletane, a cominciare da Fenesta ‘ca lucive (N), un "classico" della canzone napoletana (la musica, originariamente di autore anonimo, è attribuita a Vincenzo Bellini).
Riferisce Morricone in una intervista: "[Pasolini] volle mettere una canzone napoletana [...] non è che io fossi molto contento di tutto ciò [...] Mi pare fosse Fenesta ‘ca lucive. Poi, a vedere il film, aveva ragione, perché era tutto collocato nel Sud, cioè era una trasposizione strana quella del Decameron. Quindi mi pareva giusto quello che m’aveva chiesto, anche se mi scocciava, dico la verità che mi scocciava proprio".
Alcune scene di Decameron sono girate a Sana’a, nello Yemen del Nord; qui Pasolini girerà anche un "documentario in forma di appello all’Unesco" per fornire, attraverso immagini bellissime e suggestive, un’ampia documentazione di luoghi da salvare da un degrado e da una distruzione incombenti.
Nella primavera del 1971 Pasolini scrive la sceneggiatura del secondo film della "trilogia della vita", I racconti di Canterbury. Terminata la sceneggiatura, all’inizio dell’estate effettua alcuni viaggi in Inghilterra alla ricerca di luoghi e di personaggi adatti all’ambientazione del film. Lui stesso apparirà come Geoffrey Chaucer [vedi foto qui sotto], l’autore delle Canterbury Tales alle quali il film si ispira.
Anche per questo film, così come per il successivo, Il fiore delle Mille e una notte, le musiche originali sono di Ennio Morricone. Parlando delle composizioni inserite nei tre film, e sollecitato dall’intervistatore che gli chiedeva se per essi avrebbe voluto fare della musica diversa, Morricone rispose: "Forse sbagliando ma... Comunque avrei fatto una musica originale, popolaresca italiana, negli episodi italiani. Poi, per l’Oriente, avrei fatto una versione diversa... adesso non so quello che avrei fatto. Non ho riflettuto: ho accettato passivamente certi suoi consigli [di Pasolini] ed in certi casi ho anche reagito dicendogli che mi sembrava sbagliato e lui ha accettato anche e spesse volte le mie osservazioni... Insomma, c’è stato sempre un dialogo, però, che mi vedeva all’inizio un po’ arrendevole. [...] Per Canterbury Tales ho scritto delle cose originali per zampogna".
Nel 1972 Dacia Maraini collabora con Pasolini alla sceneggiatura del Fiore della Mille e una notte, che conclude la "trilogia della vita" del regista. Le riprese avverranno tra marzo e maggio 1973 in Nepal, Persia, Etiopia, nello Yemen del Nord e in quello del Sud.

L’ultima fatica: Salò o le centoventi
giornate di Sodoma

"Il mio principale apporto a questa sceneggiatura", disse Pasolini rispondendo alle domande di un intervistatore della televisione svizzera a proposito della trasposizione filmica delle Centoventi giornate di Sodoma di De Sade, "è consistito nel dare alla sceneggiatura una struttura di carattere dantesco che probabilmente era già nell’idea di De Sade, cioè ho diviso la sceneggiatura in gironi, ho dato alla sceneggiatura questa specie di verticalità e di ordine di carattere dantesco. Ma mentre lavoravamo a questa sceneggiatura, Sergio Citti [collaboratore alla sceneggiatura insieme a Pupi Avati] man mano si disamorava perché gli era giunta un’altra idea, l’idea di un altro film e io invece pian piano me ne innamoravo definitivamente quando è avvenuta questa illuminazione, quando cioè è venuta l’idea di trasporre De Sade nel ’44, a Salò."
Durante gran parte del film una pianista, in apparenza completamente assente da quanto sta accadendo attorno a lei, esegue come un’automa canzoni degli anni Trenta, qualche motivo di regime, alcuni Valzer (O) e Preludi (P) di Chopin, a rappresentare con il commento sonoro, oltre all’ambiente e al momento storico, la decadenza, il disfacimento di quell’epoca di massima espansione della dittatura, della repressione, della nefasta guerra fascista. Quando, dopo inenarrabili torture commesse su giovani tenuti come schiavi in una tetra villa di Salò, avverranno nei confronti degli stessi ragazzi e ragazze i primi crudeli omicidi, anche la pianista apparentemente estraniata, robotizzata, non reggerà allo strazio e al disgusto e si suiciderà. Sarà in questo stesso momento del film che, anche musicalmente, si avrà la percezione "infernale" di ciò che sta accadendo, con alcune introduzioni accordali e canti dai Carmina Burana di Carl Orff, una composizione del 1936 che raccoglie antichi canti medievali e li rielabora unendo arcaico e moderno, musica colta e popolare con soluzioni antiche e attuali. (I contenuti dei Carmina Burana sono vari: accanto a canzoni sulla primavera, l’amore, le gioie del sesso e della tavola vi si trovano poesie satirico-moraleggianti che lamentano la perversione del mondo, la decadenza dei costumi e degli studi, la malvagità del clero e del potere, lo strapotere del denaro).

Vi è infine da dire, a conclusione di questa breve riflessione sulle scelte musicali nei film di Pier Paolo Pasolini – oltre che su qualcuno dei riferimenti pittorici che in alcuni casi hanno costituito la fonte di ispirazione del regista e che sono, a mio parere, bene amalgamati e in gran parte assolutamente congruenti con i commenti musicali –, che un elemento rilevante in tutta la produzione cinematografica del poeta è il silenzio dei personaggi, l’assenza della parola e di qualsiasi altro suono. Le sequenze completamente prive di suono (la "musica dei silenzi", la definisco), che prevedono la sola, nuda presenza delle immagini dei personaggi – a volte immobili, se si eccettua il fuggevole mutare di una espressione del viso o l’impercettibile movimento di una mano o, ancora, un lieve battere di palpebre – sono momenti indimenticabili nel cinema di Pasolini. Momenti nei quali pare di trovarsi in comunione spirituale con l’artista e con i personaggi da lui creati, momenti che fanno rimanere con il fiato sospeso, rispettosi, quasi timorosi di disturbare in qualche modo i pensieri, le riflessioni trasmessi in un modo così informale dal regista. Sono silenzi che pretendono il massimo della concentrazione intellettuale e un grande coinvolgimento emotivo da parte di chi, più che assistere, "partecipa" all’avvenimento che si svolge sotto i suoi occhi comprendendone e spesso condividendone i messaggi. Questa musica del silenzio è, nelle opere cinematografiche di Pier Paolo Pasolini, lo specchio stesso della sua poesia।

Cinema di poesia
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Il rapporto tra Pasolini e i «segni» rappresenta, forse, il sentiero più affascinante da esplorare, nel labirinto del vissuto culturale di questo nostro moderno Minosse sociale. La sua vita passata tra i dedali della cultura e tra le analisi anatomiche del corpo collettivo di una opulenta società colpita da una profonda sindrome modernista, lo ha condannato ad essere assurto, suo malgrado, al rango di giudice infernale. Questa forzata veste è stata il frutto di un senso di colpa collettivo, la reazione ad una identificazione, nella sua persona, di una reificata coscienza morale. Pasolini, che separava con forza la morale dal moralismo affermando che «il moralista dice di no agli altri, l’uomo morale solo a se stesso» [intervista a «La Stampa»12/7/1968], e che faceva di sé un uomo morale contro ogni «moralismo borghese», ha visto se stesso, il suo corpo, la sua idealità, eletti a simboli di una forza critica giudicante. Una forza giudicante assolutamente insopportabile per una società incoscientemente proiettata all’interno dei facili miti del neocapitalismo consumistico. Di qui la disponibilità, se non una sorta di licenza, di questo corpo collettivo alla soppressione di una voce morale divenuta troppo ingombrante.
È quindi inevitabile che il sentiero dei «segni», specie cinematografici, sia un percorso importante nel seguire, a ritroso, il filo d’Arianna che dovrà condurci, liberi, dentro e fuori il suo vissuto culturale.
[...]
La fitta riflessione teorica che, a metà degli anni sessanta, ha impegnato Pasolini in un ricco confronto con la critica, i teorici della comunicazione e i registi, è stata felicemente stimolata all’interno della Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro. Tale riflessione (oggi raccolta, nei suoi spunti più importanti, nella terza sezione di Empirismo eretico), svolta parallelamente alla produzione filmica, ricorda l’intensa e tendenziosa produzione linguistica antiaccademica del decennio precedente.
Lo sfondo delineato brevemente, nelle sue coordinate essenziali, nei paragrafi precedenti, rappresenta un necessario punto di partenza, per inquadrare efficacemente il nodo centrale della semiologia pasoliniana che, riportando una nota definizione di Eco, potremmo chiamare Metafisica pansemiotica. L’idea topica di tale semiologia, semplificando all’estremo, consiste nel presentare il cinema come spontanea rappresentazione della realtà: «La realtà è un linguaggio. Altro che fare la semiologia del cinema: è la semiologia della realtà che bisogna fare !» [Pasolini, 1972, 139].
[...] Per Pasolini il cinema, innanzi tutto, ha rappresentato una parafrasi di un nuovo «senso», affermatosi nel mondo, in grado d’andare oltre i classici canoni di razionalità.
Parafrasando R.Barthes, Pasolini ha ricordato come il cinema sia un’arte profondamente metonimica. La metonimia è quella figura retorica che esprime una sovrapposizione del senso di alcuni segni che entrano in contiguità; essa permea ogni montaggio ed essendo il cinema fondato sul montaggio, ecco che la definizione di Barthes acquista una validità incontestabile. Andando oltre, egli ha affermato che ogni arte metonimica si specifica per esprimere un «senso» più che dei significati. Ha detto Barthes: «[...] il senso, per così dire, non è racchiuso nel significato.[...] l’arte, in quanto libertà, sembra adoperarsi, oggi, non a fare del senso, ma, al contrario, a sospenderlo». Ma passando all’analisi della vita concreta e della storia, il «senso» delle cose oltre il loro significato, secondo Pasolini, è dato da «questo rovesciarsi nella quotidianità di valori negativi ed ideali, violenti e non violenti». Si tratta di una nuova forma di coscienza, che esce clamorosamente fuori dai canoni classici del razionalismo, sia esso borghese, sia esso marxista. Pasolini, cioè, ha inteso affrontare una questione a lui assai cara, che riprenderà spesso nei suoi saggi e nei suoi film: la crisi sociale di un modello razionalista che ha fondato ogni ideologia di potere e d’opposizione ed oggi non in grado di spiegare un’ampia sintomatologia sociale sovvertitrice dei tradizionali assetti. Non a caso Pasolini si occupò ampiamente di quella «volontà sinceramente rivoluzionaria» che, specie negli Stati Uniti, si andava esprimendo in una vera nuova guerra civile. I neri e il Black Power, i neo-nazisti del Ku-Klux-Klan, i Beatniks ed il terzo mondo, esprimevano una nuova ventata a-razionale , assolutamente incompresa dalla borghesia e dal marxismo. Restringendo, per adesso, il campo d’indagine alle sole questioni semiotiche, è inevitabile, a questo punto, iniziare a trattare il cuore del problema: il «cinema di poesia».
La premessa essenziale è che «lo strumento linguistico su cui si impianta il cinema è [...] di tipo irrazionalistico [...]». Contrariamente a quanto avviene nel caso dei linguaggi letterari, che possono fare riferimento ad una base strumentale fortemente istituzionalizzata, il cinema sembra non essere legato a nessuna forma strutturata e strutturante, in grado di fornire un serbatoio comunicativo da cui attingere la sua espressività. Siamo, fin qui, all’interno di un alveo fondamentale, ma da cui presto si distaccherà, tracciato sulla falsariga della tesi Metziana del cinema linguaggio senza codice. È un’astrazione, si è chiesto Pasolini, parlare di un linguaggio cinematografico? Non esiste l’equivalente delle parola o del dizionario con i suoi lemmi, «non c’è nessuna immagine incasellata e pronta per l’uso [...] dovremmo immaginare un dizionario infinito». Eppure se ammettessimo l’ipotesi della non esistenza del linguaggio non dovremmo ammettere anche l’esistenza del cinema e della sua capacità di comunicare, il che si rivela un assurdo.
In realtà il compito dello studio del linguaggio cinematografico spetta alla semiologia, di cui la linguistica non è che una parte importante [...]
Ed è proprio alla semiologia che si è appellato Pasolini. Poiché, infatti, il cinema comunica «vuole dire che anch’esso si fonda su un patrimonio di segni comune». Non esistono solamente segni linguistici, il vivere quotidiano è un pullulare di incroci di segni, appartenenti a sistemi differenti, «infatti una parola (linsegno) pronunciata con una data faccia ha un significato, pronunciata con un’altra faccia ha un altro significato». Per Pasolini, ogni sistema di segni, ad esempio il sistema di segni mimici, è isolabile e analizzabile autonomamente. Ma, andando oltre, egli ha presupposto l’astratta possibilità di considerare il coacervo di intrecci dei sistemi di segni visivi, come un unico sistema, il quale rappresenterebbe la possibilità su cui si fonda l’esistenza del linguaggio cinematografico, «di essere presupponibile per una serie di archetipi comunicativi naturali».
Infatti, lo spettatore è, allo stesso tempo, abituato a decodificare la realtà che lo circonda nello stesso identico modo. La mimica, la gestualità, la fisiognomica, la segnaletica, tutte cose «cariche di significato» che ci permettono di decifrare la realtà, nel vivo e sullo schermo. Ma c’è di più, ha asserito Pasolini: l’uomo e la donna vivono immersi in un universo che trova nelle immagini significanti l’unica forma espressiva, come il mondo dei sogni e della memoria. Pasolini definisce tali immagini significanti, gli im-segni. Quindi se l’autore cinematografico non può, come fa lo scrittore, prendere i suoi significanti dal dizionario, egli deve prendere i suoi im-segni dal «caos, dove sono mere possibilità». In realtà la sua operazione è doppia:

1. deve prendere i suoi im-segni significativi dal caos come se esistesse un dizionario
2. come uno scrittore, deve aggiungere all’im-segno morfologico una qualità espressiva personale

È questo il motivo per cui la «comunicazione strumentale», che sta alla base del linguaggio cinematografico, è assolutamente rozza. Lo è tanto quanto lo sono la realtà bruta e i sogni e la memoria: «sono fatti quasi pre-umani» e [...] sono alla base di uno strumento comunicativo (il cinema) irrazionale: «e questo spiega la profonda qualità onirica del cinema».
[...]
Se gli im-segni non hanno forti convenzioni alle spalle, né una grammatica, essi, secondo Pasolini, sono un patrimonio comune. Ogni oggetto, ogni azione, ogni elemento della realtà ci dice qualcosa, «gli oggetti bruti [...* sono abbastanza significanti in natura per diventare segni simbolici» e sebbene essi siano privi di una storia grammaticale, hanno una ricca storia pre-grammaticale. Tutto ciò assicura al linguaggio cinematografico una poeticità che è stata soffocata storicamente da una tradizione culturale prosaico-narrativa, ma che grazie al “nuovo cinema” sta inesorabilmente riaffiorando. L’apparente forma naturalistica e oggettiva del cinema racchiude, anzi, una contraddizione. Gli im-segni contengono al loro interno sia archetipi soggettivi (quelli del sogno e della memoria), quindi appartenenti alla sfera della poeticità, sia archetipi oggettivi (mimica ecc.) molto diversi, di natura pragmaticamente funzionale.
D’altronde la stessa selezione degli im-segni avviene sulla base di una doppia natura. Una soggettiva, data dalla scarsa istituzionalizzazione del “dizionario” da cui l’autore attinge, l’altra oggettiva data da una minima forma di istituzionalizzazione di una certa quantità di stilemi, dovuta al carattere di massa dal mezzo. Quindi, ha ricordato Pasolini, esiste una natura doppia delle immagini, simile a quella della parola, che può dare vita sia alla prosa che alla poesia. Solo in casi limite (surrealismo) la poeticità è inequivocabile. Comunque sia, la massima, espressione di questa riscoperta poetica, di questa nuova volontà di sfruttare massimamente la natura profondamente poetica del cinema, è data, per Pasolini dall’uso della “soggettiva libera indiretta”
Pasolini ha introdotto la soggettiva libera indiretta nel tentativo di dimostrare l’esistenza concreta, empirica, di un indicatore semiotico in grado di rendere verificabile uno stile poetico nel cinema. Essa, in effetti, rappresenta la traslazione cinematografica del discorso libero indiretto letterario. Quindi, per Pasolini, l’esistenza del cinema di poesia è subordinata all’uso cinematografico della tecnica dell’immersione dell’autore all’interno dell’animo del suo personaggio: «l’adozione, da parte dell’autore, non solo della psicologia del suo personaggio, ma anche della sua lingua». È impossibile non ritrovare, in questa definizione del discorso libero indiretto, lo stile letterario dello stesso Pasolini; basterebbe pensare all’uso dialettale e all’identificazione «spirituale» del narratore con i personaggi, in romanzi come Una vita violenta o Ragazzi di vita. Pasolini ha individuato nel naturalismo il momento fondante di tale stile letterario: citare il I Malavoglia di Verga (Verismo) è fin troppo scontato. Eppure Pasolini ha ritrovato tracce dell’uso di tale tecnica anche nel più lontano passato, ai primordi della lingua italiana, in autori come Dante (il criticatissimo «La volontà di Dante a essere poeta»).
Ciò che ha interessato maggiormente Pasolini, è stata la necessità di distinguere, però, tra un uso proprio ed un uso pretestuale del libero indiretto. L’uso pretestuale si ha quando l’autore, borghese e privo di qualsiasi forma di coscienza di classe, usa la lingua del personaggio come pretesto, appunto, per l’espressione della propria, personale visione del mondo (Weltanschauung). Al contrario, l’uso proprio è legato ad una «adozione» linguistica, ma anche psicologica, che si realizza non solo quando l’autore riporta i discorsi del personaggio in forma diretta, ma anche quando è l’autore a descrivere, a parlare: «il «libero indiretto»[...] è un vero e proprio discorso diretto senza le virgolette e quindi implica l’uso della lingua del personaggio».
Naturalmente, nel cinema, al discorso diretto corrisponde la soggettiva, mentre, come abbiamo detto, secondo Pasolini, è la soggettiva libera indiretta che sostituisce il libero indiretto. Ma nel cinema la questione si complica, in quanto non è possibile per l’autore adottare una lingua diversa dalla sua, sia gergo o dialetto, appartenente al suo personaggio. Nel cinema esiste un’unica «lingua», «interdialettale e internazionale: perché gli occhi sono uguali in tutto il mondo». Come può, cioè, il regista materializzare il suo calarsi nella psicologia e nella lingua dal personaggio? Per quanto sia assodato che soggetti appartenenti a classi sociali differenti, di fatto, vedano cose diverse, rimane il problema di come si possa, in termini istituzionalizzati, esprimere ciò attraverso le immagini. È qui che Pasolini si è richiamato ad una necessità stilistica. La soggettiva libera indiretta è una operazione stilistica e non meramente linguistica, che si concretizza in «un monologo interiore privo dell’elemento concettuale e filosofico astratto esplicito». Ciò si esplica nella liberazione delle possibilità espressive che sono state storicamente soffocate dalla tradizione prosaica del cinema.
Costa ha definito la soggettiva libera indiretta di Pasolini come la materializzazione di un certo modo di intendere la realtà di un personaggio in tutte le inquadrature, anche quelle chiamate oggettive. Così, se il personaggio è un nevrotico, che distorce nevroticamente la sua realtà, l’autore deve trasferire questa nevrosi nelle immagini, non solo in quelle soggettive, ma in tutte le inquadrature, il montaggio, la luce, la scenografia, la fotografia ecc. L’esempio fatto da Costa, è quello dell’esperienza espressionista, in cui si ha una costante deformazione percettiva e stilistica del pro-filmico [Costa, 1993]. Naturalmente, così come avveniva per il discorso libero indiretto, anche per la cinematografica soggettiva libera indiretta si ha un uso proprio ed uno pretestuale. Dove l’uso pretestuale è quello in cui l’autore, con la soggettiva libera indiretta, in realtà impone al suo personaggio una sua condizione personale, per lo più borghese. Lo stile, cioè , non rispecchia affatto l’animo del personaggio, bensì la condizione esistenziale soggettiva dell’autore, priva di alcuna coscienza «sociologica». Pasolini ha individuato quest’uso pretestuale in autori come Antonioni, Bertolucci e Godard.
[...]
Così come la lingua scritta si presenta a noi come convenzione che ha il compito di fissare la lingua orale, il cinema viene visto da Pasolini come il momento scritto della lingua naturale che è l’azione: «L’intera vita, nel complesso delle sue azioni è un cinema naturale, vivente». Il cinema, allora, è visto come un modo di fissare la lingua dell’»agire nella realtà». Però, la lingua scritto-parlata assume, nella sua struttura grammaticale, una costituzione «parallela» rispetto alla realtà. Si tratta, secondo Pasolini, di un parallelismo che si esprime su una linearità orizzontale, che specifica la distanza evocativa esistente tra realtà e lingua scritto-parlata. Al contrario, nel caso del cinema, esiste un rapporto «verticale», una «linea, cioè, che pesca» nella realtà, nei suoi oggetti (i cinemi), che specifica la vicinanza riproduttiva tra il reale e la lingua audio-visiva. Entrambe traducono la realtà, ma una lo fa per evocazione, l’altra per riproduzione.
Nella seconda parte della relazione Pasolini ha cercato di costruire una grammatica filmica che materializzasse le sue posizioni teoriche sulla «cinelingua».
Egli ha individuato quattro «modi «grammaticali

1. Modi della riproduzione
2. Modi della sostantivazione
3. Modi della qualificazione
4. Modi della verbalizzazione

Il primo punto rappresenta una sorta di ortografia cinematografica, comprendente le tecniche riproduttive che vanno dalla soluzione dei problemi cromatici e di luce, al funzionamento della cinepresa e della presa diretta ecc.
Il secondo punto affronta delle questioni sostantivali. In primo luogo, la questione della limitazione dei cinèmi, limitazione necessaria a chi si appresta a comunicare audiovisivamente. In realtà, ha detto Pasolini, è sempre impossibile fare una «lista chiusa», cioè limitata, dei cinèmi che debbono rientrare nell’ambito di una composizione d’inquadratura. Ciò che si può attuare è una tendenziale chiusura della lista dei cinèmi, che si ripercuote sui monemi cinematografici (inquadrature), i quali sottostanno, per ciò, ad una «infinitosemia» che si riduce a tendenziale monosemia. L’esempio fatto da Pasolini, in cui la tendenziale limitazione si esplica nell’«impossibilità» di trovare oggetti esotici nell’ambito di un’inquadratura di un insegnante occidentale, serve da spunto, poi, per svelare come l’universalità del «lessico» cinema, si specifica in una differenziazione etnico-storica. Secondariamente, Pasolini ha affermato come il monema cinematografico corrisponda alla proposizione relativa della lingua scritto-parlata, dato che ogni inquadratura rappresenta qualcosa che è lì o fa o dice ecc. Naturalmente il monema non coincide necessariamente con un’inquadratura, dato che ci si trova spesso davanti a dei piano-sequenza, dove i monemi vengono «accumulati».
Il terzo punto, dopo avere individuato le definizione tecniche della qualificazione, tenta di differenziare, analogamente alla qualificazione verbale, le forme della qualificazione filmica: attiva, passiva, deponente. Si ha il primo caso quando si realizza, mediante una prevalenza della cinepresa sul soggetto, un’accentuazione dei momenti «lirico-soggettivi» (cinema di poesia). Il secondo caso si verifica nella situazione opposta, mentre il terzo rappresenta una forma intermedia tra i primi due.
Infine, il quarto punto realizza una classificazione analoga, ma riferita alla verbalizzazione. I modi relativi, in realtà, coincidono con il montaggio che si differenzia in:

a. montaggio denotattivo
b. montaggio connotativo

Il primo tipo di montaggio è stato fatto coincidere, da Pasolini, con il momento sintattico. Si tratta di un montaggio esclusivamente strumentale alla comunicazione di un discorso, il racconto. Esso, naturalmente, si specifica nelle classiche giunzioni ellittiche di natura oppositiva che danno vita alle «frasi». Secondo l’esempio pasoliniano, l’accostamento oppositivo dell’immagine di un maestro a quella di alcuni scolari che ascoltano dà vita alla frase: il maestro insegna agli scolari. La durata dell’inquadratura è l’elemento essenziale stabilito da tali «attacchi «.
Il secondo tipo di montaggio, invece, opera a livello espressivo, di contenuto. Esso è stato definito anche montaggio ritmico, per volere evidenziare l’importanza che assume, in tale tipo di montaggio, il ritmo. Infatti con questa forma di montaggio viene definita la durata dell’inquadratura in sé e, soprattutto, in relazione con le altre inquadrature. Per tale motivo, parzialmente, montaggio connotativo e denotativo coincidono. La durata specifica la connotazione nella misura in cui essa, rendendo noto quanto il regista ha inteso soffermarsi su una figura, un dettaglio, un personaggio, carica di espressività variabile quella stessa figura o personaggio. Quanto, invece, al ritmo vero e proprio (durata in relazione alle altre inquadrature), esso è sempre presente e consiste, per Pasolini, in un «ritmema», che rappresenta l’elemento realmente convenzionale ed arbitrario del cinema. Sono, infatti, solo i ritmi, nel cinema, a non coincidere, se non incidentalmente, con la realtà.
Naturalmente, con coerenza, Pasolini ha applicato questo nuovo schema, con interezza, al proprio discorso teorico sul cinema di poesia, ribadendone la distinzione dal cinema di prosa. Una distinzione adesso carica di verifiche sintattiche e grammaticali.
Pasolini ha spinto fino all’estremo, come era sua abitudine, le conseguenze di una simile impostazione semiologica, che vede nel cinema una lingua che non fa altro che fissare in maniera riproduttiva il linguaggio della realtà. Spingere all’estremo ha significato costruire un parallelo tra una tecnica meramente cinematografica come il montaggio e un elemento esistenziale, fortemente legato al vivere della realtà, come la morte.
Il cinema, ha detto Pasolini, è cosa diversa dal singolo film che noi guardiamo quotidianamente. Il cinema, come entità sostanzialmente astratta, è un infinito piano sequenza. Attraverso l’uso della lingua del cinema, infatti, si resta nell’ambito della realtà senza soluzione di continuità, in continuum che non utilizza le interruzioni di una lingua simbolica, arbitraria. Quest’ultima, abbiamo detto, evoca la realtà e ciò facendo la interrompe. Pensando al cinema, Pasolini, ha pensato ad un immaginario occhio virtuale, in grado di non perdere alcuna delle azioni che riguardano la vita di ognuno, con nessuna interruzione, in ogni dettaglio.
Nella concretezza dei singoli film, invece, ciò non si realizza, specie nei film dello stesso Pasolini, che fa un uso estremamente parsimonioso del piano sequenza. L’uso del montaggio, che spezza la continuità del cinema, è stato giustificato da Pasolini, con la necessità di mantenere una condizione non naturalistica anche nel film. Così come la nozione del cinema come infinito piano-sequenza è assolutamente non naturalistica, l’uso concreto del piano-sequenza, nel film, ha un effetto naturalistico. Diventa quindi necessario smantellare tale naturalismo per riequilibrare le sorti di cinema e film. La continuità viene recuperata a livello «sintetico» grazie al montaggio.
[...]
Tornando al parallelo tra montaggio e morte, esso si realizza in quanto la morte da alla vita ciò che il montaggio da al film, cioè il senso. Finché un uomo o una donna sono vivi, la loro vita è «un caos di possibilità», in quanto tutto può ancora succedere loro, modificando il corso e quindi il significato della loro vita. Finché vivi, essi sono solo potenzialità ; la morte dona loro un senso, azzerando il possibile, annullando il divenire. La morte trasforma il presente del vivente in passato. Chiarisce ogni azione alla luce di un finito susseguirsi di altre azioni, compiute nel passato e mai più modificabili, riassunte in vero «fulmineo montaggio» della vita. Lo stesso avviene nel passaggio dal cinema astratto al film concreto, a cui il montaggio da un senso finale trasformando, anche in questo caso, il presente in passato. Un passato che «per ragioni immanenti al mezzo cinematografico, [...] ha sempre i modi del presente (é cioè un presente storico)».
È possibile, da questa trattazione sommaria, evincere il carattere della semiotica pasoliniana.
[...]
La semiotica pasoliniana, centrata così fortemente sul reale e la sua «filosofia», ha avuto una palese ricaduta induttiva nell’estetica, nei contenuti, nei personaggi della sua concreta produzione filmica. Tutta la produzione è stata permeata da uno «spirito realista» ineliminabile, anche se analizzabile da molteplici punti di vista. Anzi, possiamo concordare pienamente con Ferrero, quando asserisce che Pasolini ha saputo opporre al potere repressivo delle classi egemoni la materialità, la realtà corporea delle classi sottomesse, la fisicità del popolo, spesso rappresentandone letteralmente il corpo, la nudità, il sesso [Ferrero, 1977]. Credo sia superfluo, a tal proposito, ricordare le sequenze «scandalose» della «Trilogia della vita». Nella «Trilogia» Pasolini ha voluto rappresentare la vitalità passionale del popolare attraverso la pura rappresentazione della corporeità sessuale e non, priva di ogni perversità, allegra, carica di una spontanea e naturale «eversività». Il reale ha sostituito il tentativo borghese del possesso del reale. Attraverso il sesso, il rutto, il peto, Pasolini ha voluto recuperare l’istintiva naturalezza del linguaggio del corpo, in totale opposizione alla cultura sessuofobica della società dei consumi. Amore omosessuale, eterosessuale o pedofilo è stato rappresentato come valore, bene libero da schemi oppressivi, diversità che è unica e reale resistenza all’omologazione del potere.
Tuttavia, è stata proprio la ricorrente esaltazione ossessiva, morbosa, passionale e temeraria della presenza realistica del popolo a rappresentare il punto di maggiore scontro tra i detrattori ed i sostenitori dell’estetica pasoliniana, sia dal punto di vista artistico e culturale, sia da quello inerente la vita privata dell’autore e delle sue peripezie giudiziarie.
A dire il vero, proprio quest’atteggiamento così profondamente proteso verso un’ebbrezza panica rivolta pressantemente alle figure, agli ambienti, ai modus vivendi, alle psicosomatiche popolari, gli è costato l’accusa più classica che gli sia mai stata rivolta: populismo. Basterà ricordare l’asprezza critica con cui un intellettuale del calibro di Asor Rosa ha accolto il lavoro artistico di Pasolini. Per Asor Rosa, che pure ha generosamente difeso il lavoro di Pasolini dalle vessazioni censorie, la sua produzione cinematografica, teatrale, letteraria non possiede alcuna validità progressista, in quanto le sue opere si pongono al di fuori «del patrimonio ideale del movimento operaio», e i suoi personaggi sono elaborati all’interno di un contesto sociale che, lungi dal rappresentare il locus privilegiato dalla figura operaio-rivoluzionaria, espressione di una avvenuta presa di coscienza marxista e innovatrice, rappresenta «l’arco di una periferia non operaia, sbandata e incerta (ladri, prostitute, ruffiani, pederasti, pugilatori, disoccupati, sottoccupati ecc.); le forze positive di questo mondo sono quelle elementari dell’esistenza: anzitutto il sesso, poi gli altri appetiti fondamentali [...]» [Asor Rosa, 1961]. Ha affermato Asor Rosa che non vale «rappresentare ambienti e personaggi popolari, per inserirsi ipso facto in una prospettiva progressiva e socialista». Siamo di fronte ad una chiara accusa di populismo generico e reazionario, in quanto privo di una coscienza prospettica realmente inserita all’interno della consapevolezza dei reali meccanismi progressivi della storia. Accuse che, dotate di una grossa e fondante riflessione politico-culturale, chiaramente rimandano ad un certo humus ideologico e che non stupiscono se inquadrate all’interno di un certo modo d’intendere la cultura e la morale da parte di una grossa fetta dell’intellighenzia comunista di quegli anni. Ricordiamo, d’altronde, che qualche anno prima Pasolini era stato espulso dal Pci per ««deviazionismo» intellettuale alimentato da letture di scrittori «borghesi e decadenti»», come Enzo Siciliano, nella sua mirabile biografia, ci ha ricordato. Lo stesso Siciliano ha commentato che in quegli anni (è il 1950) «nel clima feroce della guerra fredda lo schematismo politico e morale era un obbligo» [Siciliano, 1978]. Lo spunto per l’espulsione era nato dall’accusa di corruzione di minori e atti osceni, da cui Pasolini sarà poi assolto. Vogliamo, cioè, ricordare come Pasolini, contrariamente alle odierne lusinghe pluriconvergenti, se a destra fu odiato, a sinistra non ebbe assolutamente vita facile, anche a causa della sua ossessiva e scandalosa voglia di rappresentare la realtà di una fascia sociale marginale, che per definizione sociologica si è posta alla periferia della storia, all’esterno dei processi di lotta per il potere ingaggiata dalle classi centrali: borghesia e proletariato.
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Non sappiamo ancora con certezza da chi Pasolini fu assassinato, ma sappiamo che la mano di Pelosi eseguiva un input neuronico che proveniva anche da un corpo sociale, quello italiano, che ha rappresentato lo sfondo di odio che ha «determinato» l’omicidio। Ha ragione Dacia Maraini a parlare di un mandato sociale. Forse (mi si perdoni l’azzardo), se Pasolini non fosse stato barbaramente assassinato, oggi, età permettendo, avremmo «subito» le sue dolci invettive proprio dalla Rete Virtuale. In questo senso, il culto di Pasolini su Internet rappresenta la manifestazione più avanzata, più attuale e meno banale di una profonda nostalgia per il suo pensiero, il suo agire, la sua «scandalosa» sovversività.

L'ultimo inferno: Il Porno-Teo-Kolossal

Poco dopo il montaggio di Salò e pochi mesi prima di morire Pasolini scrive insieme a Sergio Citti una sceneggiatura per "un film sull'ideologia" che doveva rappresentare tre diversi tipi di utopia, legati a un passato paleoindustriale, a un presente neocapitalistico e a un futuro tecnocratico, inesorabilmente destinati a fallire attraverso catastrofi apocalittiche che avrebbero condotto alla fine anche dell'ultima utopia: quella della Fede.

Non meno metaforica e ideologica di Salò e non meno complessa e illimitata di Petrolio, la narrazione del Porno-Teo-Kolossal (1975) si sviluppa attraverso un viaggio fantastico e allucinato (che richiama in parte quello "surreale" di Totò e Ninetto in Uccellacci e uccellini e in parte quello "evangelico" di San Paolo nel progetto omonimo non realizzato), compiuto dalla coppia di Nunzio ed Epifanio (Ninetto Davoli ed Eduardo De Filippo) intenta a seguire una Cometa (l'Ideologia) che si dirige verso il luogo dove è nato il Messia. La ragione del pellegrinaggio della coppia servo-padrone (anziché di quella padre-figlio) riposa dunque su una speranza di carattere religioso (l'avvento del Salvatore) e non più su una delusione di natura politica (la fine del marxismo), tanto che il "viaggio" attraverso tre città-metafora con una destinazione finale in Oriente si trasforma nella presa di coscienza di una "realtà" che coincide con la fine di ogni utopia.

Ciò che risulta più significativo, comunque, è il fatto che per raccontare una storia di forte impianto ideologico-simbolico, in cui vengono contaminati generi diversi (la fiaba magica, il racconto picaresco, il racconto erotico, l'apologo biblico), Pasolini adotta quasi esclusivamente il linguaggio del corpo, sviluppandone tutti gli aspetti relativi alla sessualità: dal ciclo divieto-trasgressione-punizione al rapporto tra permessività e comprensione o tra intolleranza e repressione, dalla scoperta dell'erotismo omofilo o eterofilo alla correzione esemplare oppure all'esecuzione capitale, dallo scandalo per la violazione del divieto alla più efferata violenza fallocratica.

Il viaggio di Nunzio ed Epifanio verso la terra del Messia si sviluppa secondo una struttura perfettamente simmetrica e speculare, attraverso cui il regista costruisce tre realtà ispirate, ognuna, a un diverso tipo di utopia a seconda dell'ambientazione immaginaria che le caratterizza. L'antagonismo tra Sodoma/Roma e Gomorra/Milano si misura innanzi tutto su un asse storico-politico, che contrappone una Roma degli anni '50, ancora incontaminata dagli scempi del patto industriale e basata sui principi di tolleranza e di democrazia "reali", a una Milano della metà degli anni '70, totalmente invasa dai "disvalori" del neocapitalismo e governata dalle più aspre forme di violenza e di terrore. L'esercizio del potere in entrambe le città si manifesta attraverso due forme contrapposte di coercizione sessuale che presuppongono, ognuna, una corrispettiva esaltazione erotica di segno opposto, da cui scaturisce una visione del sesso come elemento discriminatore tra la libertà concessa, il costume imposto e il regime punitivo. Se, infatti, a Sodoma la norma è rappresentata dalle coppie omosessuali rigorosamente divise tra uomini e donne, mentre quelle eterosessuali sono segregate nel Quartiere Borghese, dove sono tuttavia tollerate da una polizia assai cordiale e benevola (che tutt'al più consiglia ma non proibisce), a Gomorra impera un regime fallocratico che non solo permette ma addirittura impone rapporti sessuali violenti tra uomini e donne, nonché ogni genere di aggressione e vandalismo, punendo al contrario, con inaudita ferocia, qualsiasi forma di omofilia clandestina.

In quest'assetto antitetico tra le due città anche le feste nazionali (impostate sempre sull'abuso del sesso) rispecchiano la natura dei loro governi: a Sodoma si celebra la Festa della Fecondazione che consiste in un grande coito annuale in cui, nell'euforia collettiva, uomini e donne si accoppiano per garantire la continuità della specie, in un clima di tolleranza "reale" nei confronti delle minoranze razziali ed eterosessuali; a Gomorra viene invece celebrata la Festa dell'Iniziazione in cui orde di giovani nudi, dopo una lunga "cattività", vengono liberate e incitate a impossessarsi della città attraverso ogni genere di violenza (stupri, rapine, saccheggi), in un'atmosfera di odio bestiale e di cieca malvagità.

Create queste due grandi utopie - quella della mitezza e della tolleranza rappresentata da Sodoma e quella della violenza e della crudeltà incarnata da Gomorra - Pasolini inserisce in entrambe un'"anomalia del destino" che si manifesta attraverso la trasgressione della norma provocata dalla scoperta della vera passione, ovvero dall'esperienza del sesso "uguale" o "diverso" a seconda della coercizione subìta. Entrambe queste "anomalie" avvengono quando Epifanio dorme in una locanda e dunque non vede quello che accade, trasformando così l'angolazione soggettiva (attraverso la quale vengono rappresentate le feste nazionali e le punizioni esemplari) in una visione oggettiva che svela, al contrario, i momenti più intensi e significativi.

A Sodoma, durante una festa da ballo in cui uomini e donne danzano rigorosamente divisi, un ragazzo e una ragazza si accorgono di essere "misteriosamente" attratti tra loro, al punto di abbandonarsi ai piaceri del "sesso diverso": "... la cosa è molto poetica perché si tratta della scoperta dell'amore e quindi del sesso nella sua originaria purezza. Ma è anche, s'intende, molto erotica, trattandosi appunto della scoperta della carne e della sua profonda emozione". Date le regole di bontà e di mitezza che governano la città, una volta scoperti i due vengono sottoposti a "un linciaggio molto bonario" e condannati a una pena "solenne ed esemplare". All'interno dello Stadio Torino, gremito da una folla in delirio, la ragazza è costretta a farsi possedere con falli di legno da "tre bellissime donne, fiorenti, felici, giunoniche", mentre il ragazzo viene sottoposto alla violenza di tre superdotati "tra i più prestanti della città, forniti del membro più grosso".

A Gomorra la trasgressione si verifica in termini e con esiti molto diversi: è nel corso della proiezione di un film pornografico in una grande arena all'aperto che un operaio di mezza età e un giovane studente scoprono di provare "un sentimento di amore l'uno per l'altro", che li porta ad avvicinarsi e a toccarsi. «L'uomo lo tocca - dopo mille, atterrite incertezze sulla coscia, poi piano, piano, ormai deciso a perdersi, comincia a toccargli il membro; poi prende la mano del ragazzo e la porta sul proprio... Insomma i due scoprono a vicenda, i loro sessi "uguali"». Coerentemente ai principi ispirati alla violenza e alla brutalità più inaudite, i due trasgressori, colti in flagrante, vengono insultati e linciati da una folla furibonda e poi condannati al massimo della pena: "l'esecuzione capitale". Questa viene attuata in Piazza del Duomo e differenziata per i due "colpevoli": dopo essere stati entrambi spogliati e torturati, lo studente viene sepolto vivo davanti al Duomo, spinto a forza dentro una buca e ricoperto di blocchi di marmo; l'operaio, invece, viene legato al carrello di un elicottero e ucciso in volo, in modo che il suo sangue possa colare sulla folla sottostante che «(...) urlando e insultando, (lo) accoglie nei palmi delle mani, lo lecca, se ne sporca gli abiti, se ne lorda il viso, in una sorta di atroce scena di cannibalismo rituale».

Se, dunque, a Sodoma l'infrazione del divieto viene punita secondo un sistema piuttosto blando che mette in atto uno spettacolo goliardico basato sulla legge del contrappasso, a Gomorra si scatena un macabro rito orgiastico all'insegna della violenza più barbarica che non può che rinviare alle atroci esecuzioni di Salò. Ma il vero orrore di questo inferno, che Epifanio e Nunzio vanno scoprendo nel corso del loro viaggio, appare soltanto quando la vendetta divina si scaglia contro gli eccessi perpetrati dai due regimi, distruggendo entrambe le città e, insieme a queste, le relative utopie. A dispetto dell'atmosfera di mitezza che avvolge Sodoma, dopo l'esemplare punizione dei due ragazzi eterosessuali, un gruppo di giovani teppisti tenta di violentare alcuni bellissimi ufficiali alloggiati nella casa di Lot (il quale preferisce offrire la moglie e le tre figlie alle lesbiche della città piuttosto che lasciare i suoi ospiti nelle grinfie dei pericolosi sodomiti), scatenando definitivamente la collera di Dio che scaglia i suoi fulmini punitivi addosso alla città, facendola bruciare "come in un quadro surrealista", attraverso uno spaventoso incendio che si trasforma subito in uno "spettacolo biblico e apocalittico".

In proporzione alla carica di violenza e di terrore che si diffonde a Gomorra, la distruzione di questa città avviene in un modo ancora più orrendo e raccapricciante. La vendetta divina si esprime attraverso una terribile peste che contagia subito tutti, provocando "sofferenze indescrivibili" seguite da una morte atroce: tutti i cittadini sono colti da sintomi spaventosi: chi vomita; chi, preso da una diarrea interminabile, defeca nelle strade, morendo sulla propria merda; chi muore sul proprio vomito, pustole orrende invadono i corpi - cadono gli occhi marci dalle occhiaie - cadono i capelli irti - tutti gli abitanti di Gomorra diventano spettri purulenti, che piano piano si decompongono e muoiono uno sull'altro, ammucchiandosi in cataste immense.

La terza città che i due pellegrini incontrano lungo il loro cammino incarna un'altra utopia, quella del socialismo, minacciata da uno stato d'assedio ad opera dell'esercito fascista. Numanzia è in realtà una Parigi "futuribile" (per quanto l'atmosfera di occupazione nazista riecheggia quella dell'ultima guerra), assediata da una polizia tecnocratica che contabilizza, smista e incolonna i passeggeri che arrivano, per destinarli ai campi di concentramento. Diversamente da Sodoma e da Gomorra caratterizzate da regimi imperniati su una specifica condotta sessuale (morbida e omofila, oppure violenta ed eterofila), Numanzia conserva ancora una libertà di espressione, che, tuttavia, sotto la pressione dell'assedio porta all'estrema risoluzione del suicidio collettivo. La proposta compiuta dal poeta, il relativo lancio sulla stampa, il dibattito in Parlamento con conseguente referendum e la decisione collettiva di darsi tutti la morte per sottrarsi alla schiavitù fascista avvengono durante un altro lungo sonno di Epifanio, che anche qui non vede e dunque rimane estraneo al momento cruciale in cui si decide il destino di un'intera città. La fine del popolo di Numanzia (in cui ognuno si uccide immortalandosi nell'azione che più desidera) non è, dunque, stabilita da una vendetta divina che si sfoga attraverso un cataclisma apocalittico (l'incendio, la peste), ma è altresì decisa da una volontà umana che pianifica una sorta di suicidio "ideologico" per prevenire un ben più atroce genocidio tecnocratico messo in atto dall'avvento del regime neo-nazista.

L'arrivo dei due viaggiatori in Oriente avviene in un'atmosfera di totale desolazione, in cui a poco a poco essi perdono i bagagli, vengono derubati dei vestiti, finché, dopo aver attraversato paesaggi sempre più inquietanti e desertici, da "fine del mondo", al Re Magio, durante il suo ultimo sonno, viene sottratto il prezioso pacco che egli aveva sempre portato stretto al petto, contenente il dono per il Messia: uno splendido presepe vivente interamente d'oro. Il furto del presepe non è che il preludio al fallimento dell'ultima utopia rappresentata dalla Cometa: quella della fede. Giunti, ormai in mutande, nell'immaginaria località di Ur, i due scoprono che il Messia non c'é più, o meglio è nato ma è anche già morto, in quanto il loro viaggio è durato troppo a lungo, tanto da essere arrivati "irrimediabilmente tardi".

Malgrado il senso di sconforto e di abbandono che informa l'ultima parte della sceneggiatura, il finale rimane misteriosamente sospeso e non finito, tanto che anziché chiudere il testo all'insegna di un'ipotizzabile "ideologia della morte", lascia cadere l'accento non più sull'illusione di un'altra impossibile utopia, bensì sulla presa di coscienza della realtà appena conosciuta, che, se non offre alcuna speranza, dispone quanto meno a una nuova attesa. Difatti, dalla sommità del cielo - verso cui sono ascesi Nunzio (trasformato in Angelo) e lo spirito di Epifanio (morto dallo sconforto), senza riuscire altresì a trovare alcun Paradiso - i due osservano in lontananza la terra piccola come un mappamondo, dalla quale provengono voci e rumori della vita quotidiana, seguiti da canti rivoluzionari.

Nel "silenzio" e nel "vuoto" del cielo Epifanio commenta con filosofico distacco: (...) è stata un'illusione quella che (mi) ha guidato attraverso il mondo - ma è stata quell'illusione che, del mondo, (mi) ha fatto conoscere la realtà. (...) Eppure... come tutte le Comete, anche la Cometa che ho seguito io è stata una stronzata. Ma senza quella stronzata, Terra, non ti avrei conosciuto...

La disillusione, dunque, produce conoscenza e la perdita della speranza provoca la scoperta della "realtà". Se è vero che finisce l'utopia, inizia però l'attesa che qualcosa possa accadere, come sentenzia Nunzio nelle ultime parole che concludono la sceneggiatura: "Nun esiste la fine. Aspettamo. Qualcosa succederà". Un nuovo corso? Una nuova "realtà"? La possibilità di un nuovo impegno?

Nella sua dimensione surreale e metafisica il finale sfuma nell'ambiguità, lasciando semmai la possibilità di immaginare (anche grazie all'eco di quei "canti rivoluzionari") un futuro oltre la catastrofe.

2. Fallocrazia, visionarietà, sarcasmo

Malgrado sia rimasto in forma di sceneggiatura, il testo del Porno-Teo-Kolossal risulta assai ricco di elementi riguardanti non solo la riflessione ideologica (con le relative allegorie politiche e culturali), ma soprattutto la concezione fallocratica della sessualità e il gioco della "doppia visuale" (oggettiva e soggettiva) che si collega direttamente all'ultimo film Salò o le centoventi giornate di Sodoma. Nella perfetta complementarità delle due città-utopia basate sui contrapposti regimi sessuali persiste, di fatto, un tipo di visione che evidenzia la virilità maschile a fronte della passività femminile e privilegia il rapporto gay rispetto a quello lesbico, in base a un immaginario (sia in senso omofilo che in senso eterofilo) fortemente fallocratico. La punizione "esemplare" che subiscono il ragazzo e la ragazza di Sodoma è basata, in entrambi i casi, sulla penetrazione forzata: con "falli di legno" da parte delle "lesbiche giunoniche" e con i "grossi membri" da parte dei "giovanotti superdotati". La stessa improvvisa violenza che conduce alla distruzione della città è esercitata da un gruppo di "sodomiti teppisti" ai danni di alcuni giovani ufficiali, inutilmente contrastata da Lot nell'offrire in cambio le sue figlie alle lesbiche di Sodoma. Non di meno, la violenza sessuale legalizzata a Gomorra è esclusivo appannaggio degli uomini (soprattutto dei giovani iniziati) ai danni delle donne che finiscono con l'essere vittime o, tutt'al più, complici dell'intero sistema. Allo stesso modo, la passione omosessuale che scatena lo scandalo in tutta la città nasce tra un operaio di mezza età e un giovane studente: coppia curiosamente speculare rispetto alle esperienze vissute dallo stesso Pasolini, in cui l'adulto intellettuale si rapportava ai ragazzi di borgata.

In questo dominio della virilità esercitata sia in termini di violenza (contro le donne), sia in termini di passione (solo tra uomini), vi è un unico momento in cui viene messo in risalto - in senso letterale - il sesso femminile, sebbene in un contesto estremamente osceno e violento: ovvero durante la proiezione del film pornografico nell'arena di Gomorra. Nella sceneggiatura viene specificato, infatti, che nel corso di questa "produzione volgarissima", in cui si rappresenta un coito "in ogni suo dettaglio", "c'è un'inquadratura consistente in uno zoom che pare entrare, lentamente - attraverso cosce schifosamente allargate - dentro il sesso della donna, in dettaglio: il sesso reso enorme dallo schermo-gigante." Un'immagine del sesso femminile quasi mostruosa e ripugnante, finalizzata ad eccitare il pubblico maschile della città e a spingerlo ad usare la violenza come possesso.

Anche la storia delle figlie di Lot, ispirata alla leggenda biblica, si conclude in maniera grottesca all'insegna di un tentativo di sodomia. Dopo aver fatto a turno l'amore con il padre sul treno che le sta portando via da Sodoma (stando attente a non voltarsi mai indietro), le ragazze vengono assalite, appena giunte a Gomorra, da un gruppo di giovinastri che le obbliga a voltarsi "verso Sud" per possederle da tergo, con il risultato di trasformarle subito in statue di sale, impietrite per sempre in una "positura ridicola e indecente". È chiara qui l'ironia applicata alla storia biblica: le figlie di fatto "ubriacano il padre e compiono atti lussuriosi con lui", ma nello scompartimento di un treno che rende la scena quanto mai comica; allo stesso modo, la maledizione di essere trasformate in statue di sale si avvera, ma nel momento in cui queste sono costrette a voltarsi per essere beffardamente possedute "alla pecorina".

Un'altra caratteristica estremamente significativa della sceneggiatura è l'impianto a "doppia visuale" attraverso cui si intrecciano le diverse azioni del racconto. Gli arrivi nelle città e le scoperte dei relativi regimi, le feste nazionali e le punizioni dei trasgressori, gli scenari apocalittici e le fughe dai flagelli sono tutte "soggettive" di Epifanio, il quale assiste (insieme a Nunzio) da testimone inerme, incredulo e spaventato a ciò che gli accade intorno, senza mai prenderne parte. Le uniche visioni "oggettive" della realtà, come è stato notato, sono quelle in cui Epifanio sprofonda in un "sonno cieco" che non gli permette di "vedere" sia gli atti clandestini con cui si trasgrediscono i divieti, sia le reazioni di scandalo e di linciaggio che si diffondono nelle città. Tuttavia c'è un momento in cui la visione soggettiva di Epifanio si sdoppia e diventa "divisa e totale" insieme, in quanto la scena - nella fattispecie la Festa dell'Iniziazione di Gomorra - viene mostrata prima attraverso le "sequenze in diretta" trasmesse dalla televisione e poi attraverso lo sguardo del Re Magio affacciato alla finestra, in modo da offrire una doppia soggettiva (quella della Tv e quella di Epifanio) che ricorda, come nota Roberto Chiesi, le torture e le esecuzioni di Salò mostrate attraverso le lenti del binocolo.

La visione degli orrori finali di Salò diventava, così, indiretta e furtiva, e Pasolini, obbligando lo spettatore a spiare un voyeur mentre guarda immagini oscene e insopportabili, faceva coincidere il suo sguardo con quello del carnefice. Lo stesso dispositivo visivo sarebbe presumibilmente posto in opera per Porno-Teo-Kolossal: la visione dell'orrore, dell'atroce, mutuata dallo schermo della Tv, resa talvolta precaria da ostacoli che impediscono una visione chiara e definita, diventava ancora più credibile, quindi ancora più atroce. La televisione, quindi, assolve lo stesso ruolo di "filtro" del binocolo, selezionando le scene ed evidenziando gli orrori, con il risultato, però, di offrire sensazioni più realistiche che stranianti, grazie soprattutto alla specificità del mezzo audiovisivo che offre una prospettiva diversa (più "totale" che "personale") rispetto al singolo sguardo umano.

Per quanto il testo del Porno-Teo-Kolossal sia estremamente ricco di scene iperrealistiche, se non addirittura visionarie (come le atroci punizioni sessuali e sanguinarie o come le spaventose distruzioni apocalittiche), l'andamento fortemente drammatico della storia è stemperato da alcuni "intermezzi" comici messi in atto dalla coppia Eduardo-Ninetto e dalla figura ricorrente del "napoletano" che "soccorre" i pellegrini in ogni città. Come accadeva per i personaggi-maschera di Totò e Ninetto, che con i loro corpi e le loro facce creavano una comicità dai risvolti spesso amari e tormentati (in particolare in Uccellacci e uccellini e nelle due ideo-fiabe), anche i personaggi complementari di Epifanio e Nunzio (l'uno mite e trasognato, l'altro brusco e scortese) danno vita a una serie di situazioni esilaranti, provocate dalle canzoni napoletane cantate da Ninetto e dalle "controscene" comiche mimate da Eduardo, nel corso dei loro spostamenti in treno da una città all'altra. A queste si aggiungono i divertenti incontri basati su intese, agnizioni, confidenze ed effusioni con il misterioso napoletano che, nelle sue molteplici vesti di suonatore ambulante a Sodoma, di venditore di armi a Gomorra, di cuoco dell'esercito fascista a Numanzia e di autista dell'Hotel Continental a Ur, offre ogni volta la sua protezione ai due viaggiatori, fuorché alla fine in cui si rivela, al contrario, il ladro del prezioso presepe destinato al Messia.

Oltre alla mimica e alla gestualità napoletane, che creano in diverse circostanze un'atmosfera di grande ilarità, esistono altri momenti tragicomici in cui si verificano scene grottesche dai risvolti macabri, come accade nel corso del festeggiamento per l'occupazione di Numanzia. Il bizzarro alterco (intorno alla marca del vino utilizzato per il brindisi) che si genera tra il Capo dell'esercito fascista e il poeta promotore del suicidio collettivo (unico a non essersi ucciso), degenera nella fucilazione immediata di quest'ultimo, il quale, dopo aver tradito i suoi concittadini, muore da eroe alzando il pugno chiuso e gridando "Viva la Rivoluzione!", per una bizzarra questione di puntiglio.

D'altra parte, lo stesso andamento della sceneggiatura evidenzia non solo "una contaminazione di generi", come rileva lo stesso Chiesi, ma anche "una contaminazione stilistica totale", evolvendosi in questo modo dallo "Stile Elevato o Drammatico" della realtà di Sodoma, allo "Stile Sublime o Tragico" delle atrocità di Gomorra, allo "Stile Medio o Comico" della desolazione di Numanzia e di Ur, per dissolversi, infine, in una conclusione metafisica che lascia aperta ogni interpretazione.Non a caso, secondo una perfetta struttura circolare, il Porno-Teo-Kolossal si conclude con la stessa immagine iniziale della Terra vista "dal buio e dal silenzio delle altezze cosmiche". Se, però, in apertura, "il globo terrestre" veniva a poco a poco messo a fuoco, finché non si individuava l'Italia e poi Napoli "con i suoi vicoli, le sue piazzette, i suoi bassi" (da dove prendeva forma tutta la storia), in chiusura il "mappamondo" diventa sempre più lontano e indistinto, finché non si ode soltanto "un confuso brusio di voci", che suscita nel disincantato Epifanio sentimenti di "gratitudine" e di "commozione". Vale a dire che l'unico modo per "comprendere" (nel doppio senso di capire e di contenere) il dramma dell'uomo - ovvero il fallimento dell'utopia - è quello di osservarlo a una certa distanza, da un'ottica soggettiva ma allo stesso tempo universale, che possa abbracciare l'umano dibattersi ("le voci e i rumori della vita quotidiana") attraverso un malinconico e disilluso sguardo cosmico.


3. La TV come rifiuto: L'histoire du soldat

Tra i diversi progetti che Pasolini ha lasciato irrealizzati si annovera una sceneggiatura che egli scrisse insieme a Sergio Citti e a Giulio Paradisi poco tempo prima di morire, ispirata al racconto di Charles-Ferdinand Ramuz L'histoire du soldat scritto nel 1918.

Probabilmente affascinato dal populismo favolistico della vicenda - che narra la storia di un soldato disertore e del suo incontro con il diavolo - Pasolini vi inserisce tutti i temi appartenenti a quella "mutazione antropologica" che aveva subìto l'Italia alla fine degli anni sessanta: l'omologazione di massa, il consumismo su larga scala, la perdita dell'innocenza, la fine delle culture popolari, l'egemonia del patto industriale. In particolare, però, imposta la sceneggiatura sullo scontro frontale con la "televisione" (letteralmente demonizzata) e la sua "ideologia", fondata sulla manipolazione e il livellamento delle coscienze.

Attraverso un viaggio compiuto in senso contrario rispetto a quello di Nunzio ed Epifanio (ossia da Nord verso Sud, partendo dal Friuli per fermarsi a Roma e poi giungere a Napoli), il soldato Nino Diotallevi (la cui parte era stata pensata per Ninetto Davoli) ha la ventura di incontrare il Diavolo in persona - mefistofelica incarnazione del potere massmediologico - che lo fa diventare in breve tempo un teledivo, nuovo apostolo della fede mediatica, adorato dalle folle, coperto di ricchezze, moltiplicato in infinite immagini e privo di qualsiasi identità.

L'idea di creare un dibattito televisivo intorno all'identità del diavolo, inteso come "il Male in astratto" che rappresenta "il Potere e la sua ideologia", permette a Pasolini di fare un parallelo tra il passato, in cui il diavolo era simboleggiato dall'"organizzazione ecclesiastica" che prospettava "la felicità nell'altro mondo" attraverso una consolazione di tipo "criminale", e il presente, in cui il diavolo è simboleggiato dalla "comunicazione di massa" che promette, invece, "la felicità in questo mondo" attraverso una consolazione altrettanto "criminale". In definitiva, se prima il diavolo incarnato nella Chiesa si esprimeva attraverso "un'ideologia conservatrice" di stampo feudale che produceva nel popolo miseria, fame ed ignoranza, adesso il diavolo incarnato nella televisione si manifesta attraverso "un'ideologia edonistica" basata sul capitale che provoca nelle masse benessere, consumo e ricchezza.

Aldilà di tale impostazione fortemente ideologica, in cui il Potere in quanto tale è identificato con il diavolo, ciò che colpisce in questo testo è, per un verso, la riproposizione, in termini di differenze di classe, del rapporto cibo-sesso - binomio che si è visto attraversare sia il realismo della borgata, sia la sacralità dei miti, sia l'immaginario delle favole - e, per altro verso, la connessione (questa volta inedita) tra i rifiuti del corpo e il successo di massa: ovvero l'approccio scatologico come valutazione dell'audience televisivo.

In merito al primo aspetto è interessante notare il bizzarro contrasto che si viene a creare tra la famiglia "popolare" della campagna bergamasca, presso la quale Ninetto si ferma durante il viaggio, e quella, invece, "carnevalesca" del protagonista stesso, che lo accoglie fragorosamente quando giunge a Roma. Nella prima tappa, malgrado la presenza ipnotica della televisione, i contadini rimangono affascinati dalla musica suonata dal violino di Ninetto e dalla favolosa panzanella che egli prepara "con abilità borgatara". Dopo aver consumato un pasto così semplice e povero, Ninetto passa una notte d'amore con la sordomuta che aveva incontrato sul treno e dalla quale era stato condotto presso i suoi tre simpatici "fratelloni". Quando invece giunge a Roma - dopo aver incontrato il diavolo che lo introduce subito nell'arte massmediatica - egli si trova a che fare con la sua sgangherata famiglia dalle parentele quanto mai perverse e bizzarre, la quale lo festeggia con un banchetto imbandito di ogni genere di prelibatezze (pasta, polli, pesce, dolci), che si conclude con l'arrivo di "una burinella, la mignotta di Ninetto", con cui egli si apparta per fare l'amore.

In questa contrapposizione elementare (tra una famiglia contadina formata da semplici vincoli parentali e una famiglia imborghesita composta da elementi quanto mai eterogenei) saltano subito all'occhio le differenze basate sul consumo sia del cibo che del sesso. Al rito culinario della panzanella assistito dagli stupefatti contadini si contrappone la pantagruelica mangiata della grottesca famiglia di Ninetto, così come all'innocente rapporto con la sordomuta consumato in una notte d'amore fa da contraltare il lubrico approccio con la "burinella", brutalmente interrotto dall'arresto del protagonista.In un passaggio successivo della sceneggiatura viene messo addirittura in luce il grottesco rapporto tra sensualità e scurrilità, quando - durante un ricevimento in onore di Ninetto, ormai diventato un teledivo che può beneficiare dei lussi e dei vizi tipici dell'edonismo borghese (vestiti eleganti, cibi prelibati, ragazze disponibili) - l'atmosfera della festa viene turbata dal rumore e dall'olezzo di un gran peto. Ninetto ha la prontezza di spirito di improvvisare un poema sulla scoreggia, mimando il dialetto napoletano antico, con il risultato di guadagnarsi il bacio di una ragazza come premio. È chiaro che qui il sarcasmo non investe soltanto la sfera erotica (il bacio che premia il poema sul peto), ma si estende anche al clima grottesco della festa, basato sugli eccessi, sullo sfarzo e sugli sprechi del benessere borghese.

Il fulcro della storia, tuttavia, ruota intorno a un altro elemento della corporalità: non si tratta né del sesso, né del cibo, che comunque rappresentano gli aspetti più vitali della carne (l'eccitazione e il nutrimento), ma riguarda piuttosto i rifiuti organici (la "merda" e il "piscio") immediatamente provocati dalla visione di alcuni spot pubblicitari basati, guarda caso, sul tema della morte e dell'Aldilà. La sceneggiatura racconta di due spot girati da Ninetto, per i quali la gente abbandona qualsiasi attività per precipitarsi davanti al video in uno stato di ipnosi collettiva. La prima réclame è ambientata in un cimitero che, tuttavia, è pieno di vitalità: i morti sembrano vivi in quanto giocano, parlano, si baciano a seconda se sono bambini, anziani o giovani innamorati. Ninetto saltella in mezzo a loro pubblicizzando una società di assicurazioni sulla vita. Nel secondo sketch egli interpreta Sant'Analfabeta che va in giro tra la gente a fare miracoli, i quali però vengono proibiti dal priore in quanto ormai troppo superati. L'unico miracolo concesso e sempre valido è quello rappresentato dalla polizza sulla vita, chiamata Fede. Seguendo un elementare meccanismo di stimolo-risposta, appena finito ogni short pubblicitario la folla si precipita ai gabinetti pubblici per evacuare i propri escrementi, elevando considerevolmente il livello "di merda e di piscio" nelle fogne.

Una squadra di delegati venuti da diversi paesi per discutere dell'immenso successo di Ninetto (diventato ormai un vero fenomeno massmediatico), si calano dai tombini per misurare il livello raggiunto dagli escrementi: "un metro, un palmo e quattro dita, 67 centimetri superiore a Canzonissima", vero record di un Auditel escrementizio che misura l'intensità del gradimento con la quantità dei rifiuti corporei.La proporzione diretta tra rifiuto organico e successo mediatico viene di nuovo messa in risalto in una situazione ancora più grottesca: nel corso di una celebrazione in cui Ninetto - diventato apostolo della verità attraverso la propria immagine moltiplicata centinaia di volte - viene insignito del titolo di cavaliere del lavoro (agghiacciante la profetica affinità con Berlusconi), egli riesce a sottrarsi alla cerimonia, rifugiandosi in un "cesso". Felice di aver ritrovato una propria intimità, preferisce liberarsi dei propri bisogni, piuttosto che farsi schiacciare ancor più dai meccanismi massificanti del successo televisivo. In questo caso, allora, l'"andare di corpo" non rappresenta più un indice di consumo che misura l'entità di ascolto di una trasmissione, bensì diventa una protesta individuale contro il processo manipolatorio e terribilmente omologante della comunicazione di massa.

Il sogno che Ninetto fa sul treno che lo porta a Napoli, in fuga dall'incubo in cui è piombato da quando ha incontrato il diavolo, è di fatto un ritorno alle origini e un recupero della propria identità. Mentre fugge dai suoi aguzzini ("professori, burocrati, tecnici, fotografi") Ninetto viene fatto prigioniero del Sacro Teatro di Sua Maestà e di Dio, dove incontra la figlia del re, gravemente malata di colera. Affascinato dalla sua bellezza egli riesce a guarirla massaggiandole il corpo nudo con gli ingredienti della panzanella, che si rivela addirittura un unguento magico dalle doti miracolose. Nel tripudio generale il re concede in sposa la figlia al suo salvatore, premiando così la combinazione della passione amorosa con le virtù di un cibo prodigioso che ha permesso la guarigione della fanciulla. Nel sogno, allora, Ninetto torna a suonare il violino, cucina di nuovo la panzanella, si abbandona a un affetto sincero, recuperando così le "doti" naturali che aveva prima di essere trasformato in uno spersonalizzato teledivo. Ma la "realtà" mediatica riesce ad avere la meglio anche su quella fiabesca e il sogno finisce con alcune ruspe mandate dal diavolo che distruggono il Sacro Teatro, al posto del quale vengono costruiti pezzi di "strada sopraelevata su enormi pilastri".

La sceneggiatura de L'histoire du soldat, alla quale Paradisi e Citti non si sentirono più di lavorare dopo la morte di Pasolini, fu tradotta in testo teatrale e portata in scena da tre registi (Gigi Dall'Aglio, Giorgio Barberio Corsetti e Mario Martone) nel luglio del 1995 ad Avignone, per poi essere replicata con successo in altre città italiane ed europee. L'idea di realizzare la regia dello spettacolo a sei mani (aldilà di rispettare l'autorialità triadica che aveva la sceneggiatura) nacque dal proposito di affidare a ognuno dei tre registi una parte del testo, a seconda delle loro stesse provenienze geografiche. Gigi Dall'Aglio curò il viaggio nel Nord, ricostruendo quel Friuli delle origini pasoliniane, in cui la purezza, la vitalità e l'innocenza cominciavano ad essere soggiogate dal potere ipnotico dei mass media; Barberio Corsetti si occupò di mostrare come la Roma delle borgate si era trasformata nel regno diabolico della televisione, in cui gli spot pubblicitari richiamavano le visioni infernali di Petrolio e della Divina Mimesis; Mario Martone ricostruì una Napoli onirica e teatrale, che conservava ancora quell'autenticità incontaminata dalla cultura di massa, così come era stata concepita e rappresentata nella Trilogia della vita. In questo modo i tre registi hanno ripercorso lo stesso itinerario pasoliniano, evidenziando come il mondo biografico e artistico dell'autore si sia andato trasformando (dalle campagne alle borgate) attraverso il contagioso potere dei media, dal quale sembrava possibile salvarsi soltanto rifugiandosi nella fiaba onirica o nella finzione teatrale. Il ruolo del soldato fu naturalmente interpretato da Ninetto Davoli, per il quale era stata adattata la parte, mentre la figura del diavolo, inizialmente concepita per Vittorio Gassman, fu interpretata da un "ambiguo e forbito" Renato Carpentieri.

All'insegna della complementarità tra le arti, dunque, una sceneggiatura scritta per il cinema in merito alle trasformazioni culturali e sociali provocate dalla televisione, fu realizzata per il teatro con l'uso non solo dei mezzi della realtà "virtuale" (gli stessi televisori), ma anche con la presenza fisica dei corpi sulla scena, che tanta importanza avevano acquisito nel testo sia in termini di ideologia, che di linguaggio.

1 commento:

uniroma.tv ha detto...

Buon pomeriggio, siamo la redazione di Uniroma.tv abbiamo realizzato un servizio sul rapporto tra cinema e Storia, dai film di Pasolini alla serie tv "Romanzo Criminale".
Al seguente link il nostro servizio http://www.uniroma.tv/?id_video=18468

Grazie per l'attenzione