martedì 12 agosto 2008

La Narrativa - Parte 1

Il sogno di una cosa

Il sogno di una cosa fu il primo esperimento narrativo di Pasolini, composto nel '49-'50, a seguito degli avvenimenti italiani del '48-'49, quando il 'Lodo De Gasperi', che stabiliva rapporti di lavoro più equi tra proprietari terrieri e contadini, spinse questi ultimi a rivendicarne l'osservanza da parte dei recalcitranti padroni friulani. La storia è quasi completamente ambientata nelle campagne friulane, tra i contadini che si incontrano alle sagre di paese, vivono rapporti semplici e genuini, e cercano di migliorare la propria vita emigrando, cercando lavoro nelle miniere o reclamandolo con azioni politiche, sempre intenzionalmente pacifiche.

Il mondo contadino ritratto da Pasolini appare come il vero depositario dei valori positivi: l'amicizia, l'amore, la solidarietà, la famiglia. Protagonisti principali sono tre ragazzi di paese che diventano amici durante la prima sagra, episodio d'apertura del romanzo. Un esempio della genuinità di sensazioni e sentimenti lo possiamo cogliere immediatamente, nella fase iniziale di questa amicizia:

«Ormai l'amicizia era fatta: era tanto che i due giovani desideravano conoscersi, che si guardavano: una volta c'era stata anche quasi una lite tra di loro per colpa di una involontaria spinta che si erano dati ballando: ed era da allora che si erano fatti amici. Adesso, dopo le prime parole, cominciava a entrare nei loro discorsi un entusiasmo, un calore che rendeva bella qualsiasi cosa: l'idea di andare a bere un bicchiere, la più comune che si potesse avere in quel momento, gli parve stupenda; e specie dopo che ebbero bevuto non uno, ma due o tre bicchieri di vino, pendevano uno dalle labbra dell'altro come se certe cose, l'organizzazione di una sagra, la bravura di un'orchestrina da ballo e le ragazze di Gruaro, fossero argomenti trattati per la prima volta dalla creazione del mondo». (pag. 22)
Non c'è mai finzione o sotterfugio: ciò che questi personaggi dicono è esattamente ciò che pensano; tutto è trasparenza, non c'è mediazione, forse perché non possiedono quella malizia tipica delle menti abituate a pensare troppo. La vita, dalle loro parti, è veramente ridotta all'essenza: basta una bottiglia di vino, un'armonica e un po' di gente per dare una svolta a una serata, a un pomeriggio; basta vedere l'ingiusta ricchezza dei proprietari terrieri per far loro decidere che è giunto il momento di agire, non per un'ideale comunista del quale sono culturalmente coscienti, ma per un comunismo che hanno dentro se stessi, una coscienza di classe che va al di là degli altisonanti discorsi politici.

Non è un romanzo dalle grandi parole o dalle grandi strategie politiche, non c'è un leader a dirigere le azioni, ma semplicemente il popolo che cerca giustizia, e che lo fa nel suo tipico modo genuino, a volte intimidito da chi ha il potere, a volte incoraggiato dalla vicinanza degli altri.

Pasolini amava ritrarre la gente delle classi più semplici (per semplici intendo meno mascherate, più facili da avvicinare). Questo suo amore lo ha dimostrato anche con Ragazzi di Vita e Una Vita Violenta, attraverso la gente di paese e di borgata i suoi romanzi riescono a trasmettere l'immediatezza della vita quotidiana e a farci sentire una certa nostalgia per un tipo di rapporti umani più genuino.

Una particolarità che ho notato e che mi ha fatto pensare a quanto questi rapporti fossero fondamentali in Pasolini, è la presenza, ne Il Sogno di una Cosa, del vino: colore e calore vivo, sempre pronto a fungere da collante per un paio d'ore da trascorrere insieme. L'effetto 'loquacizzante' del vino è conosciuto a tutti, ma in questo testo ha un ruolo primario: quando i protagonisti vengono ritratti nella loro vita quotidiana o in particolari momenti festosi, li troviamo sempre attorno a un tavolo o davanti a un camino a bere tutti insieme; quando la situazione si fa difficile, non bevono più, il vino sparisce e con esso calore e colore.

Il bere e il mangiare sono due degli aspetti al centro della vita di tutti gli uomini, ma in genere nei romanzi sono momenti della giornata che vengono trascurati per privilegiare quella che è la trama principale. Una delle differenze tra homo sapiens (l'uomo reale, in carne ed ossa) e homo fictus (l'uomo fabbricato, inventato, il personaggio) sta nel fatto che l'uomo reale mangia, beve e dorme, mentre il personaggio dei romanzi non viene quasi mai descritto mentre svolge queste azioni, considerate tempi morti ai fini di una trama.

Se ci rendiamo conto di quanto invece in Pasolini ci sia attenzione per questi sacrosanti momenti della giornata di un uomo, sia esso sapiens che fictus, arriviamo facilmente alla conclusione che i suoi personaggi non vivono d'aria, ma di pane, carne e vino come noi stessi, e per questo ci capita di sorridere più spesso quando leggiamo storie come questa, in cui riconosciamo i nostri momenti più 'rustici', in cui non dobbiamo riflettere sul senso delle parole di un dato personaggio che dovrebbe trasmetterci chissà quale messaggio filosofico, ma semplicemente lasciarci trasportare dalle parole dei protagonisti ed entrare nel loro mondo।

Ragazzi di vita
1955

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Al termine di Ragazzi di Vita non rimane quella sensazione di soddisfazione che in genere si prova quando si finisce di leggere un romanzo distensivo, rilassante e coinvolgente; la sensazione che rimane è, piuttosto, di malessere e tristezza: quelli che ne Il Sogno di una Cosa erano ragazzi di campagna semplici e schietti, in compagnia dei quali si trascorrevano ore tranquille, oltre che momenti più difficili, in quest'altro romanzo sono adolescenti della periferia di Roma, sottoproletari con alle spalle famiglie sfrattate, ammucchiate insieme ad altre famiglie in stanze e corridoi di edifici fatiscenti.

Il romanzo racconta le loro giornate trascorse alla ricerca di soldi e passatempi. Sono personaggi emarginati dalla città normale e rispettabile, non integrati in un contesto sociale di lavoro o scuola: la strada è il loro spazio e la loro scuola. Una delle sensazioni più immediate, durante la lettura, è che si stia assistendo alla storia di adolescenti che non sono mai stati bambini. In loro non c'è la voglia di giocare innocentemente, nessuno di loro è ingenuo; l'unico ad avere qualcosa in comune con la figura del bambino, Marcello, muore quasi subito, proprio nel momento in cui va a cercare il Riccetto, suo migliore compagno di avventure.

La strafottenza, la tracotanza, la malizia e la prepotenza sono talmente naturali da sembrare quasi congeniti; non esistono rapporti umani basati sull'amicizia, sui vincoli familiari o d'amore. La povertà e la disperazione che regnano in questo romanzo non guardano in faccia a niente e nessuno: per gioco si può decidere di bruciare uno del gruppo, per rabbia si può reagire accoltellando la propria madre, per necessità si rubano i soldi di tasca a un amico con il quale ci si stava divertendo sul fiume poco prima.

Il fiume è il punto di ritrovo dei personaggi, metafora dello scorrere del tempo: come la vita così il fiume scorre verso un'unica direzione in un rinnovarsi del sempre uguale: queste vite hanno tutte un destino simile, quelle che seguiranno avranno la stessa sorte, è come un incantesimo che ha intrappolato i destini di chi si specchia o si bagna nelle sue acque. L'acqua ha un ruolo centrale, fa parte di una sorta di rito iniziatico: si attraversa il fiume per dimostrare di essere grandi, di essere pronti: lo hanno attraversato il Caciotta, un duro; il Riccetto, che da finto dritto che non riusciva a non farsi 'fregare' è diventato adulto; non è riuscito a mettere piede nelle sue acque il Bègalo, morto per un attacco di tubercolosi sulle sue sponde; infine Genesio, desideroso di crescere e dimostrare qualcosa compiendo la traversata, muore, trascinato dalla corrente.

Ma lui non riusciva ad attraversare quella striscia che filava tutta piena di schiume, di segatura e d'olio bruciato, come una corrente dentro la corrente gialla del fiume. Ci restava nel mezzo, e anziché accostarsi alla riva, veniva trascinato sempre in giù verso il ponte. (p. 239)
È un fiume torbido e inaffidabile, una metafora più che somigliante al tipo di vita che si ritrovano i personaggi pasoliniani, già minati dalla nascita. Anche in questo romanzo sono gli istinti più naturali dell'uomo a farla da padroni: fame, sonno, sesso, sono sempre presenti:
Il Lenzetta e il Riccetto s'accostarono alla donna ch'era piccola e grossa come un rotolo di coppa, stettero un po' a contrattare, e, passando tra i fili di ferro di un reticolato, si spinsero in dentro, tra mucchi fradici di canne. Non ci misero molto; appena che risortirono andarono calmi calmi a lavarsi un pochetto a una fontanella, in mezzo al piazzale dov'era il capolinea dei tranvai. Per dormire ci pensò il Lenzetta. Dietro alla borgata Gordiani, in una prateria da dove si vedeva tutta la periferia con le borgate, da Centocelle a Tiburtino, in fondo ad un orto zuppo di guazza, ci stavano dei grossi bidoni arruzzoniti, abbandonati lì insieme a altri ferrivecchi, in un recinto. Erano abbastanza grossi, tanto che ci si poteva camminare dentro sulle ginocchia, e lunghi quanto una persona. Dentro uno di questi il Lenzetta c'aveva messo della paglia; ne prese un poca, e la mise in uno vicino. Ci si distesero e ci dormirono fino alla mattina dopo alle dieci. (p. 99)
Si parla in romanesco, soprattutto con imprecazioni e frasi smozzicate, è una lettura che crea tensione, che esige attenzione ad ogni pagina, non perché 'bisogna stare attenti', ma perché non si riesce a non rimanere coinvolti e a non provare un senso di colpa davanti a tanta disperazione। A mio parere il senso di colpa nei confronti di questi personaggi è d'obbligo, anzi è più giusto affermare che dovrebbe essere immediato e naturale: nel 1997 non possiamo certo pensare che quella raccontata da Pasolini sia una realtà riscontrabile esclusivamente negli anni in cui scriveva, basta andare un po' più in periferia, o semplicemente a mezzo chilometro da casa mia, che guardacaso vivo a Centocelle, dove, in una scuola abbandonata, vivono alcune famiglie che non hanno casa. E l'indifferenza, anzi l'assenza dello Stato che dovrebbe assistere, allora come adesso, è più attuale che mai, a parte quando 'tutela l'ordine'.

Una vita violenta
1956

Con i romanzi Ragazzi di vita e Una vita violenta Pasolini ha dato, con grande sensibilità e senso della realtà, espressione letteraria al sottoproletariato dell’estrema periferia romana, una realtà sociale formatasi dopo le distruzioni imposte alla città dai bombardamenti subiti durante la seconda guerra mondiale e alimentata anche dalle grandi ondate migratorie dell’immediato dopoguerra, quella stessa realtà che il Poeta descriverà con mano sicura e partecipe anche nei suoi film Accattone e Mamma Roma, e che sarà guida costante di tutta la sua vita e delle sue creazioni artistiche.
In Una vita violenta la rappresentazione pasoliniana, pur crudamente realistica, evidenzia pietà e amore per un mondo miserabile i cui personaggi possono essere cinici e amorali ma al tempo stesso pienamente innocenti per la loro infantile, primitiva, quasi istintiva umanità.
Strettamente aderenti alla materia trattata sono le scelte linguistico-espressive che utilizzano largamente il dialetto romanesco, tanto che quasi tutte le battute di dialogo sono costituite da una fedele e spesso cruda trascrizione del gergo delle borgate. I passi di carattere narrativo e descrittivo presentano invece, con felice esito espressivo, un singolare intarsio di lingua italiana e dialetto.

Ambientato fra il sottoproletariato romano degli anni Cinquanta il romanzo delinea un vasto affresco realistico in cui emerge la vicenda esemplare di Tommaso Puzzilli, un "ragazzo di vita" che arriva attraverso le sue esperienze ad acquisire consapevolezza umana e politica.
Nato fra le baracche dell’estrema periferia, da una famiglia miserabile, Tommaso, violento e amorale, vive di sordidi espedienti e partecipa anche a spedizioni teppistiche. Per una rissa in cui ha accoltellato un altro giovane, Tommaso viene condannato a due anni di carcere e, uscendo di prigione, trova la famiglia insediata in un appartamentino dell’Ina case, finalmente ottenuto dopo tante richieste.
A Tommaso, affascinato dal "lusso" quasi "borghese" della sua nuova abitazione, sembra di poter ora intraprendere una vita nuova e rispettabile, ma il suo sogno di elevazione sociale è destinato a fallire. Alla visita militare, Tommaso risulta ammalato di tubercolosi ed è perciò costretto a un lungo ricovero che vanifica ogni possibilità di lavoro e di guadagno. Entrerà in un ospedale. Proprio all’interno del tubercolosario, però, a contatto con un gruppo di degenti politicizzati, comincia per Tommaso un processo di maturazione che lo porta a prendere coscienza della sua condizione individuale e sociale.
Una volta dimesso dall’ospedale Tommaso dà la sua adesione al Partito comunista e, quando l’Aniene inonda un quartiere di baraccati, egli accoglie prontamente l’invito dei compagni della sezione gettandosi fra l’acqua e il fango per aiutare i pompieri impegnati nei soccorsi.
Questo gesto generoso è però fatale a Tommaso, in quanto gli procura un nuovo, violento attacco della sua malattia polmonare. Poche, dimesse parole, a conclusione del romanzo, annunciano la sua morte: «...tossì, tossì... e addio Tommaso».

  • (Alcuni stralci del romanzo che si riferiscono all’intervento di Tommaso in aiuto dei pompieri, da Una vita violenta, Garzanti, Milano 1975 - prima edizione, 1959)
Tommaso, accodato ai pompieri, s’arrampicò affondando nella fanga, aranfandosi ai resti delle fratte, a qualche ramata, a qualche alberello frollo, e raggiunsero quasi la parte più alta, a mezza costa, dove c’era una specie di spiazzo. Li s’era messa della gente, scappata dalle baracche, vestita come si trovava, qualcuno addirittura in camicia, con le creature in braccio e i ragazzini che piangevano.
Le donne corsero, scivolando, nere di fango, incontro ai pompieri: urlavano. chiedendo aiuto. «Ecco là» gridavano, come ce ne fosse bisogno, forse perché non se ne sapevano capacitare. «Ecco là tutto quello che ce rimane!»
Non c’era niente prima, quattro bicocche, quattro tettoiette arruzzonite, un po’ di stracci: e adesso tutto questo era stato sfascia-to, portato giù dal fango verso il fiume. Lo spiazzale al centro, dove giocava Tommasino da piccolo, era un laghetto, e in mezzo, appozzati nell’acqua, c’erano i resti delle capanne.
Qualcuna di queste capanne, di qua e di là, si reggeva mezza in piedi, ma, dalla parte dei monti, c’era ormai tanta melma ch’era arrivata alle mensole delle finestre, e aveva cominciato a andar dentro, sbragando le due imposte marcite. Poi, da lì, aveva sfondato la porta, sul davanti, e aveva cominciato a risortire, risputando fuori tutto quello che c’era in casa, seggiolette, scatole, scarpe, concoline, qualche tavolinetto scassato. Tutto questo s’ammucchiava davanti, e un po’ alla volta, giocando sulla colata di melma, finiva verso il centro del villaggetto, e, con gli altri rottami più grossi delle baracche completamente spiantate, andava giù verso il fiume.
[...]
Tra le baracche che non erano state sfasciate, ce n’era una un po’ più all’asciutto: era quella che tutti guardavano. Una donna. che c’abitava, ci s’era inchiodata, forse con la speranza di salvare un po’ di roba: s’era messa a racapezzare tutto quello ch’era per terra, e che da la fanga si portava via, entrando dalle finestre.
Poi però un po’ alla volta la fanga era sempre più cresciuta, e lei era rimasta bloccata là, sola, nella sua capanna, e chiamava aiuto. La sua voce non si sentiva quasi per niente, col rumore della pioggia, del vento, della corrente del fiume. I pompieri avevano delle corde, e si davano da fare per andarla a prendere: Tommaso, accanito, ci si mise in mezzo, facendo tutta una manfrina, svociandosi per farsi dar retta: «Voi nun sete pratichi» gridava «nun conoscete er fondo! È tutto pieno de buche, ce sta er reticolato... Fatemece annà a me, che io la so la strada!» Ma i pompieri non lo vedevano per niente tutti presi a preparare la corda sotto le sventagliate della pioggia. Uno se la legò ai fianchi, e s’addentrò. Ma non fece neanche due passi, che scivolò perché lì c’era la scesa, e s’immelmò fino agl’occhi. Fece per tirarsi su, ma non ce la sbroccolava, e allora gli altri lo riportarono indietro.
«V’o’o detto!» strillava Tommaso. «V’o’o detto che nun ne magnate niente! Nun se passa de llì, bisogna fà er giro!»
«Mannatece ‘sto giovanotto, che sa indove deve mette i piedi!» intervenne allora Passalacqua.
«Allora che devo fà?» continuava a gridare Tommaso, in campana, scalmanato, «ce devo annà io sì o no?»
«Dà qua», fece il capoccia. Prese e legò alla cintola Tommaso. Senza nemmeno voltarsi indietro, per mostrare lui come si faceva, Tommaso si buttò dal ciglio della strada, e cominciò a fare il giro al largo, anziché andare dritto alla capanna. Pure lì la melma era alta, sopra gli stinchi, ma costeggiando le baracche che più o meno s’erano salvate, intorno allo spiazzaletto, un po’ alla volta, come Dio volle, ci s’accostò. La donna gridava aiuto, stirando il collo da una finestrella della baracca. «Mo’ arivo, a signò! Stateve bbona!» gridò Tommaso, dal pantano. [...]
La donna. Scarmigliata, fracica, con le mani giunte strette sulla pancia, l’aspettava: come fu lì, le venne un attacco di petto: tutto a una volta. Cominciò a smaniare e rigirarsi: «Famme pijà quarcosa» gridava «armeno un materasso, un vestito...»
«A signo’, ma mica so’ un facchino, io’!» le gridò Tommaso di brutto, mentre lei diceva così e non si muoveva. «’Namo! ‘Namo, signò, che qui la faccenda s’aggrava’!»
«Ma io c’ho paura, come famo?» diceva quella ripiegata in avanti, verso tutta quell’acqua, tremando, bianca, ingelita, coi capelli attaccati alle guance come bisce.
«Venite qua, appoggiateve vicino a me, acchiappateve ar collo!» le faceva Tommaso, tirandola.
«Ma nun ce la pòi fà,» gridava la donna, con una voce da ragazzina, facendo la pignarella, «ma nun vedi che c’è, li mortacci sua?» «Ce provamo, aaa cosa!»
[...]
Tenendosi aggrappato alla corda, si spingeva alla disperata verso la scesa, dove lo stavano aspettando, e lo tiravano piano piano. Tutto sudato, che per rifiatare quasi si crepava, arrivò all’asciutto. La comare cominciò a far la matta, e a lasciarsi prendere dalle convulsioni, mentre gli altri cercavano di calmarla e di farle insorsare un po’ di cognac. Tommaso si slegava la corda dai fianchi, sbragato sul fango, tutto lasciato, ma gobbo, con la fronte bassa, perché non si voleva far vedere in faccia com’era ridotto, senza un filo di fiato per bestemmiare.
  • (Alcuni appunti sul romanzo, tratti da Pasolini: cronaca giudiziaria, persecuzione, morte, Garzanti, Milano 1977)
[...] Il 12 novembre 1959 una giuria di cui fanno parte Carlo Emilio Gadda, Alberto Moravia, Giuseppe Ungaretti, Giorgio Bassani, Giacomo De Benedetti assegna al romanzo di Pasolini Una vita violenta il premio letterario Città di Crotone. Un vero terremoto [il sindaco della città di Cutro aveva querelato Pasolini per ciò che egli aveva scritto sulla Calabria – e specificamente su Cutro – nel mensile milanese "Successo"].
La sostanza dei fatti è la seguente: Crotone e Cutro sono due cittadine a pochi chilometri di distanza l’una dall’altra, ma ben distinte politicamente: Crotone ha un amministrazione comunale comunista; Cutro un’amministrazio-ne comunale democratica cristiana, che sta perdendo terreno di fronte all’avanzata compatta del Pci. [...]
Il Premio Crotone assegnato «a chi ha offeso senza alcun ritegno l’onorabilità della cittadina crotonese di Cutro» come ha scritto "Il Messaggero della Calabria" diventa dunque il punto focale di una vera e propria battaglia politica. «I comunisti di Crotone hanno tradita la Calabria» scrive il quotidiano democristiano «Il Popolo», «indignazione in tutta la regione per l’assegnazione del premio a un nemico della nostra terra». I gruppi di minoranza democristiana, missini e liberali, si dimettono dal consiglio comunale di Crotone; i tre partiti fanno affiggere manifesti insultanti Pasolini e «il milioncino» datogli come premio; il presidente della provincia e il presidente della corte di appello di Catanzaro si dimettono dal comitato d’onore del premio; il prefetto cerca affannosamente appigli procedurali per annullare l’assegnazione del premio «al romanzo del comunista Pasolini»; la Fgci costituisce un servizio d’ordine per la protezione del poeta.
[...]
Sul settimanale «Rinascita» del gennaio ’60 il senatore Mario Montagnana deplora che i critici comunisti abbiano parlato bene di Una vita violenta sostenendo tesi ispirate ad un patriottismo di partito culturalmente non troppo diverso dal patriottismo dei conservatori calabresi: «Pasolini riserva le volgarità e le oscenità, le parolacce al mondo della povera gente... si ha la sensazione che il Pasolini non ami la povera gente, disprezzi in genere gli abitanti delle borgate romane, e ancor più disprezzi il nostro partito... Tommasino il protagonista è in realtà un giovane delinquente della peggior specie: ladro, rapinatore e pederasta... Decide di iscriversi al partito comunista... la descrizione che il Pasolini dà della sezione comunista e del suo segretario (un mezzo delinquente) e dell’assemblea dei suoi iscritti, è senz’altro da respingere con sdegno... Ecco il giovane delinquente diventato un tesserato del partito comunista... ha bisogno di alcune centinaia di lire... entra in un cinematografo malfamato... Si avvicina a un tale che riconosce come pederasta... si fa masturbare da lui... si fa consegnare 500 lire... Non è forse abbastanza per farti indignare?»
[...] qualche mese dopo, nel maggio ’60, s’indigna l’Azione Cattolica milanese che sporge denuncia contro Una vita violenta. Il procedimento penale viene affidato al dr. Spagnuolo il quale a sua volta affida ad Alessandro Cutolo, ordinario di storia all’Università di Roma, noto divo della TV dell’epoca, il compito di fornirgli una rapida perizia del corpo del reato. Il prof. Cutolo ne fa una disamina scrupolosa [...]

Nella narrazione il linguaggio è crudissimo, offensivo, e molto spesso lo è senza necessità, quasi per compiacimento: nei dialoghi sembra che l’oscenità e la scurrilità non possano separarsi dai personaggi. In realtà quella gente non può parlare in altro modo, e lo si capisce quando lo scrittore ci presenta lo scenario nel quale essa vive... Tutto il libro offende il gusto del lettore: ma quale gusto? alla fine si è oppressi da un senso di colpa... Il neorealismo rispecchia il costume e i tempi e siamo ormai avvezzi dai film, dalle commedie, dai libri, ad accettare durezze e scabrosità che i nostri nonni avrebbero respinto sgomenti... In Una vita violenta queste durezze, queste scabrosità sono disseminate con abbondanza e descritte con termini scurrili e volgarissimi: ma la rappresentazione del vizio è desolata, il peccato non dà gioia, i peccatori non destano alcun desiderio di imitarli; non c’è in questo libro niente di pruriginoso... [...]
[Dopo la "perizia"] l’«azione cattolica» del prof. Cutolo determina la decisione di non promuovere azione penale in data 14.3.63.

  • Così parla Pier Paolo Pasolini del suo romanzo in Le belle bandiere, Editori Riuniti, Roma 1996
"Con Ragazzi di vita e Una vita violenta - che molti idioti credono frutto di un superficiale documentarismo - io mi sono messo sulla linea di Verga, di Joyce e di Gadda: e questo mi è costato un tremendo sforzo linguistico: altro che immediatezza documentaria! Rifare, mimare il "linguaggio interiore" di una persona è di una difficoltà atroce, aumentata dal fatto che, nel mio caso - come spesso nel caso di Gadda - la mia persona parlava e pensava in dialetto. Bisognava scendere al suo livello linguistico, usando direttamente il dialetto nei discorsi diretti, e usando una difficile contaminazione linguistica nel discorso indiretto: cioè in tutta la parte narrativa, poiché il mondo è sempre "come visto dal personaggio". Le stonature in questa operazione sono sempre a un pelo dalla scrittura: basta eccedere solo un minimo sia verso la lingua che verso il dialetto che il difficile amalgama si rompe, e addio lo stile."

"La trama di Una vita violenta mi si è fulmineamente delineata una sera del '53 o '54, quando stavo finendo di scrivere Ragazzi di vita. C'è un punto della Tiburtina, all'altezza di Pietralata, e poco prima di Tiburtino III e Ponte Mammolo (dove allora abitavo), che si chiama il "Forte". Vi si vedono una caserma, un bar, una fabbrica, un deposito di pullman, delle baracche, e, dietro, un'altura, un montarozzo spelacchiato e infernale, il "Monte del Pecoraro" (che ho tante volte descritto nei miei libri, e che ridescriverç nel primo Canto del mio nuovo romanzo, un Inferno, appunto, che si chiama La mortaccia).
Pioveva, o era appena cessato di piovere. C'era un'aria fradicia e dolente, con quell'azzurro cupo, funereo, troppo lucido che si scopre in fondo all'orizzonte quando il tempo si rasserena verso sera, ed è ormai troppo tardi.
Camminavo nel fango. E lì, alla fermata dell'autobus che svolta verso Pietralata, ho conosciuto Tommaso. Non si chiamava Tommaso: ma era identico, di faccia, a come poi l'ho dipinto ripetutamente nelle pagine di Una vita violenta, e vestiva, anche, nello stesso modo: un abituccio sbrindellato, ma "serio", con la camicia bianca magari sporca, e la cravattina, violacea e lisa. Come spesso usano fare i giovani romani, prese subito confidenza: e, in pochi minuti mi raccontò tutta la sua storia: l'episodio che ho poi raccontato nel primo capitolo, e la sua malattia al Forlanini.
Poi sparì. Non l'ho più rivisto. Né a Pietralata, né a Tiburtino; in nessuna di quelle misere strade che circondano la Città di Dite.
Quando sono giunto al capitolo del Forlanini, ho dovuto documentarmi, perché in tutta la mia vita non avevo visto un ospedale se non per qualche visita.
Ho parlato con due ex ricoverati - che sarebbero poi diventati due personaggi del romanzo - ho parlato con uno dei medici (fratello di un uomo politico comunista mio amico), e ho parlato, infine, con alcuni malati anonimi. Cinque o sei giorni di lavoro. Tutto qui."

  • Alberto Asor Rosa da Scrittori e Popolo - il populismo nella letteratura italiana contemporanea, Einaudi, Torino
"Una vita violenta si colloca ad un livello di complessità assai superiore a quello dell'altro romanzo. Nel periodo di tempo che intercorre tra Ragazzi di vita e Una vita violenta, Pasolini compie del resto un altro passo nello sviluppo della sua tematica e della sua ideologia. Ragazzi di vita appartiene al momento, che noi abbiamo esemplificato sul piano teorico coi riferimenti agli articoli apparsi su "Officina" e alle poesie delle Ceneri di Gramsci; l'assenza di una scelta ideologica storicamente impegnata e lo sperimentalismo letterario avevano caratterizzato questa fase. Negli anni successivi lo scrittore compie il tentativo di solidificare la propria posizione, uscendo da questo stadio di mobile problematica. Per quanto riguarda l'ideologia, questo significa da parte sua un deciso avvicinamento al marxismo. Per quanto riguarda le scelte letterarie, questo significa elaborare un tipo di discorso narrativo, che abbia al proprio centro una storia, cioè un asse, un nucleo di interessi fondamentali, intorno al quale si riunifichino gli sparsi frammenti delle osservazioni, e che perciò appaia assai più determinato da una tesi, da una precisa intenzionalità.
[...]
Tommaso [...] Cosi' come Pasolini lo rappresenta - dapprima teppista e missino, insensibile moralmente, sessualmente animalesco, poi, attraverso l'esperienza del fidanzamento con Irene e del sanatorio, comunista, ed infine eroe per spirito di bravata e di antica, sotterranea generosità - egli proviene dal cliché ben noto di una politica di sinistra, fondata tutta sul tema della "elevazione delle masse" e sul presupposto della progressività umana della spinta popolare. Non c'è nulla in lui, che non si possa ritrovare sulla pagina della cronaca romana dell'"Unità" o dell'"Avanti!". C'è persino, da parte sua, la riscoperta del ruolo decisivo che giuoca, nella formazione di una coscienza non più semplicemente animale, l'edilizia popolare: il motivo della casa per tutti e la polemica contro i tuguri alle soglie della capitale.
[...]
Pasolini si direbbe sopraffatto dalla sua stessa smania di andare sempre di più verso il fondo, sempre di più verso l'essenza del bene attraverso l'essenza del male: la parte terminale di questo pozzo, in cui egli è sprofondato, non è che un magma viscido, che tutto soffoca in sé. Lo stesso contenuto populistico dell'ispirazione pasoliniana a questo punto si sfrange e cola via, come sotto la pressione di forze consistenti. La rabbia, la violenza, l'inconscia protesta di questi sottoproletari, non sono che gesti meccanici, circoscritti nell'ambito di una natura sorda ed opaca come quella degli esseri bruti.
[...]
Ma il coacervo di populismo, progressismo, decadentismo estetizzante e morbosità animalesca, non quaglia, se non in virtù della solita operazione moralistica ed intellettualistica. Sono, anche in Una vita violenta, pregevoli i risultati raggiunti da Pasolini ogni qual volta dimentica l'armamentario ideologico e riesce contemporaneamente a frenare i suoi spasimi sub-coscienziali. In una misura di realismo teso e moderatamente appassionato, si ritrovano le pagine più riuscite del libro: in capitoli come "La battaglia di Pietralata" e "Che cercava Tommaso?", in cui lo scrittore sta fermo alle cose e ai movimenti delle cose, senza buttarvisi sopra come un affamato. [...]
Pasolini si muove ad un livello linguistico assai ristretto, con un puntiglio di fedeltà, che ancora più rimpicciolisce il significato umano comunicabile dei suoi personaggi। Nel corso della narrazione, invece, egli alterna brani, in cui conserva intatta la struttura di una sintassi letteraria estremamente elaborata e complessa, limitandosi ad innestarvi di tanto in tanto elementi del lessico popolaresco, ad altri di più aggrovigliato impasto, che rivelano la tendenza anche sintattica ad intepretare un tipo di espressione più immediata e irriflessa".


Amado mio / Atti impuri
Dal cassetto di Pasolini

. Se i rapporti di Pasolini con la sua omosessualità sono stati scandalosamente al centro del suo personaggio pubblico, nei suoi innumerevoli processi, non hanno avuto la stessa rilevanza nelle opere che finora ci era dato conoscere. Pasolini si era voluto comunista e nel legame tra l'omossessuale e il comunista, lo scandalo giganteggiò, dentro e fuori di lui, fino all'autocensura. Aveva sempre rimandato la pubblicazione, ad esempio, di due romanzi brevi, scritti in gioventù, che ora compaiono insieme in un volume intitolato Amado mio. I motivi per cui Pasolini ci aveva nascosto questo libro, mentre pure aveva riscritto e pubblicato, Il sogno di una cosa, sono ormai consegnati al mistero. Possiamo provare però a fare delle ipotesi. Innanzitutto, da gran letterato qual era, immaginava postume le opere "non finite", dove la forma faceva difetto, dove non si usava sufficientemente il fren dell'arte. Atti impuri, uno dei due romanzi, è stato rimaneggiato dalla curatrice del volume, Concetta D'Angeli, la quale ha dovuto svolgere in prima persona anche quelle parti che nel romanzo erano state scritte in terza. In secondo luogo l'autore di Ragazzi di vita non volle darsi ancora un volta in pasto a chi lo accusava di essere un corruttore di minorenni. Sappiamo che gli ultimi anni di vita li passò scrivendo un romanzo di più di mille pagine, le sue confessioni omosessuali, che gli editori e gli eredi non hanno ancora inspiegabilmente pubblicato. .
Pasolini stesso, a chi lo interrogava sulla sorte del romanzo, come capitò al sottoscritto pochi giorni prima che morisse, rispondeva che aveva deciso di pubblicarlo postumo. Ed era certo un discorso velato di ironia. Ma l'ipotesi forse più convincente è ancora un'altra. Temendo la rottura di immagine di scrittore impegnato a sinistra, di poeta civile (immagine ormai consolidata in tutte le storie letterarie) lo scrittore friulano aveva accuratamente soppresso la sua omosessualità letteraria. La regola dell'universalità dell'arte, primonovecentesca, aveva prodotto più d'un'eco in lui. Le ceneri di Gramsci non poteva sopportare nessuna luce obliqua. Un poeta insomma non accetta etichette di nessun genere. Ma cominciamo con il primo romanzo del volume, con Atti impuri. Il giovane Paolo, appena laureato, renitente alla leva, durante la seconda guerra mondiale, raccoglie attorno a sé un gruppetto di ragazzi del suo paese e dei paesi vicini e insegna loro soprattutto il piacere della lettura poetica. .
In questo lavoro gli é accanto la madre, insegnante di lingue; presenza muta, carica di significati. I fanciulli sono il vero argomento del libro e soprattutto uno di essi, tal Nistuti, che Paolo si accorge di desiderare rapinosamente. Nistuti é figlio di contadini ma anche Bruno, un altro ragazzo che Paolo vorrebbe far suo, lo è. Mentre Nistuti è innamorato, di Bruno ama solo il sesso, la sua "volgarità". Ed è qui che Paolo rivela la sua provenienza di classe, la sua appartenenza alla piccola borghesia di provincia, che certo non vede di buon occhio il sottoproletariato rurale. La vicenda con Bruno è la spia che sia per gli omosessuali che per gli eterosessuali degli anni quaranta, c’è il sesso e c’è l’amore, due cose separate e distinte. Per Nistuti solo amore, anche se non sa vibrare di piacere alla vista di un bel tramonto o al suono del violino o al canto di un usignolo. C’è anche una ragazza in Atti impuri. Si chiama Dina e passa il suo tempo, lei che conosce musica e psicanalisi, a cercare Paolo nella boscaglia, mentre rincorre i ragazzi. La sofferenza amorosa di Paolo, che arriva al parossismo, quasi potesse essere concepita come un’ossessione senza oggetto, è atroce. Il giovane insegnante vorrebbe che tutti accettassero la sua omosessualità, come accettano la sua bravura, la sua bontà. .
Ed è proprio per via dell’intensità di una tale sofferenza che Atti impuri non è un romanzo per omosessuali. Certo può dare fastidio l’idea che l’omosessuale si debba riscattare, debba soffrire, debba sentirsi muto. La problematica cattolica sollevata dal romanzo non è delle più attuali. Che cosa ne penserebbe, ad esempio, uno scrittore come Tony Duvert, che racconta i suoi furenti amori omosessuali in un borgo dell’Africa del nord in Diario di un innocente (La Rosa editore). Forse ne sorriderebbe. Il piacere in Atti impuri è tanto più bramato quanto più lo steccato del divieto è solido. La carne non ha il colore e i contorni "pagani" dei narratori moderni dell’omosessualità. Essa è legata ai tizzoni infernali. E così Dio si accoppia con Mammona. Paolo si muove tra angeli e diavoli, combatte come l’ultimo dei cavalieri di un romanzo cattolico che in Italia ha avuto altri fautori. Quello che caratterizza Atti impuri oltre al sapore violentemente autobiografico, è la energia quasi settecentesca e musicale del personaggio, che fa volentieri della sua sofferenza teatro, culto della bellezza, del manierismo. Può sembrare che tra le bellezze naturali del Friuli, l’amore di Paolo e le atrocità della guerra, non intercorra alcun rapporto. Invece, almeno ad un livello di intenzioni, non è così. Paolo nel suo amore si sente "ammalato". E la guerra è sempre stata una grande malattia. L’unica a far eccezione è la natura, che sembra non occuparsi, spavalda, delle vicende umane. E’ la spia del divino sulla terra? .
Il secondo romanzo breve, un racconto lungo in verità, che ha dato il titolo al volume, è scritto in terza persona. La forma si presenta subito più accuarata. Dove in Atti impuri spirava l’aria della patetica confessione, quasi di fatto personale, in Amado mio tutta la materia omosessuale è distanziata, alleggerita, ancor più teatralizzata. Desiderio, il personaggio conduttore del romanzo, che è però corale, inscena davanti alla platea dei suoi amici, in nottate all’aperto, nei balli, nelle lunghe giornate assolate, vere e proprie performance. Desiderio è frivolo, provocatore, "checca". Pretende baci da tutti i ragazzi della comitiva e soprattutto da uno di loro, soprannominato Iasis, il quale lo farà ingelosire presto. All’aperto, dove si balla e si canta "Amado mio", scoppiano come mortaretti, le effusioni, i trasalimenti, le gelosie e gli accasciamenti del giovane Desiderio. .
Siamo piuttosto dentro un musicall che dentro un idillio alessandrino, come suggerisce Bertolucci nella sua bizzarra presentazione. Alla fine degli anni quaranta certo Pasolini si sente più cresciuto e domina la sua materia con più maestria, ma la materia gli ha fatto lo scherzo a volte di scomparire, tanto è stata travestita, allegerita. Si sarà capito a questo punto che le preferenze del recensore vanno tutte a Atti impuri, che certo aggiunge e suggerisce come nuove all’itinerario pasoliniano. Amado mio prefigura invece, scialbalmente, Ragazzi di vita. .
Detto ciò, i due romanzi, dal punto di vista stilistico, si assomigliano in più punti। L’estrema letteralità delle scelte aggettivali e sintattiche, la presenza di frequenti arcaismi fa pensare al giovane Pasolini che si allontana dal suo infuocato materiale di vita attraverso una ricerca letteraria più neoclassica che sperimentale. L’amata filologia è presente in entrambi i romanzi, ma con esiti diversi, se non opposti.


Alì dagli occhi azzurri
1965


Il volume contiene:

Squarci di notte romane (1951)
Il biondomoro (1950)
Bounce tempo (1950)
Giubileo (relitto di un romanzo umoristico) (1950)
Notte sull'ES (1951)
Studi sulla vita di Testaccio (1951)
Appunti per un poema popolare (1951-52 e '65)
Dal vero (1953-54)
Mignotta (Relazione per un produttore) (1954)
Storia burina (1956-65)
La notte brava (1957)
Il Rio della Grana (1955-59)
La Mortaccia (frammenti) (1959)
Accattone (1960)
Mamma Roma (1961)
Ballata della madre di Stalin (1961-62)
La ricotta (1962)
Profezia (1962-64)
Rital e raton (1965)
Avvertenza (1965)


I primissimi anni cinquanta rappresentano per Pasolini un periodo tragico. Trasferitosi da Casarsa in seguito al primo scandalo giudiziario della sua vita, si ritrova in una realtà del tutto diversa da quella friulana. Vive nella zona di Rebibbia, nella parte orientale della città. Di questo periodo, e degli anni a venire, sono gli scritti presenti in Alì dagli occhi azzurri, raccolti in un unico volume e scritti tra il 1950 e il 1965. Nel racconto in versi che presta il titolo alla raccolta, "Profezia", Pasolini spera nella potenzialità rivoluzionaria dei popoli sfruttati del terzo mondo:

Essi sempre umili
Essi sempre deboli
essi sempre timidi
essi sempre infimi
essi sempre colpevoli
essi sempre sudditi
essi sempre piccoli,
essi che non vollero mai sapere, essi che ebbero occhi solo per implorare,
essi che vissero come assassini sotto terra, essi che vissero come banditi
in fondo al mare, essi che vissero come pazzi in mezzo al cielo,
essi che si costruirono
leggi fuori dalla legge,
essi che si adattarono
a un mondo sotto il mondo
essi che credettero
in un Dio servo di Dio,
essi che cantavano
ai massacri dei re,
essi che ballavano
alle guerre borghesi,
essi che pregavano
alle lotte operaie...

... deponendo l'onestà
delle religioni contadine,
dimenticando l'onore
della malavita,
tradendo il candore
dei popoli barbari,
dietro ai loro Alì
dagli occhi azzurri - usciranno da sotto la terra per uccidere -
usciranno dal fondo del mare per aggredire - scenderanno
dall'alto del cielo per derubare - e prima di giungere a Parigi
per insegnare la gioia di vivere,
prima di giungere a Londra
per insegnare ad essere liberi,
prima di giungere a New York,
per insegnare come si e' fratelli
- distruggeranno Roma
e sulle sue rovine
deporranno il germe
della Storia Antica.
Poi col Papa e ogni sacramento
andranno su come zingari
verso nord-ovest
con le bandiere rosse
di Trotzky al vento...

Nella "Avvertenza" che chiude il volume Pasolini dedica (come del resto avverrà nei titoli del film) Mamma Roma a Roberto Longhi nei confronti del quale, scrive, "mi ritengo debitore della mia folgorazione figurativa". Ringraziamenti anche al "demone" di Franco Citti che percorre tutto il libro, e a Ninetto Davoli cui vengono dedicati alcuni versi che portano la data del 1965:

Ed ecco che entra nella platea un ossesso, con gli occhi dolci
e ridarelli,
vestito come i Beatles.
Mentre grandi pensieri e grandi azioni
sono implicati nel rapporto di questi ricchi con lo spettacolo,
fatto anche per lui, egli col suo dito magro di cavallino delle giostre,
scrive il suo nome "Ninetto",
sul velluto dello schienale (sotto una piccola nuca orecchiuta
contenente le norme del comportamento e l'idea della borghesia libera).

Ninetto è un messaggero,
e vincendo (con un riso di zucchero
che gli sfolgora da tutto l'essere,
come in un mussulmano o un indù)
la timidezza,
si presenta come in un aeropago
a parlare di Persiani.

I Persiani, dice, si ammassano alle frontiere.
Ma Milioni e milioni di essi sono già pacificamente immigrati,
sono qui, al capolinea del 12, del 13, del 409, dei tranvetti
della Stefer. Che bei Persiani!
Dio li ha appena sbozzati, in gioventù,
come i mussulmani o gli indù:
hanno i lineamenti corti degli animali
gli zigomi duri, i nasetti schiacciati o all'insù,
le ciglia lunghe lunghe, i capelli riccetti.

Il loro capo si chiama:
Alì dagli occhi azzurri.

Il libro rappresenta una sorta di piattaforma sperimentale per ciò che sarà la produzione letteraria e cinematografica futura di Pasolini. Diverse situazioni e ambientazioni si accavallano tra le oltre 500 pagine di questo volume: racconti, poesie, sceneggiature. Molto frequente l'uso del dialetto romanesco alternato ad una narrazione in italiano, che rappresentarà il modello narrativo di Ragazzi di vita. Presenti nella raccolta anche due progetti narrativi: "Il Rio della Grana" e "La mortaccia" mai terminati da Pasolini. Tra i documenti più interessanti le sceneggiature dei primi tre film del Pasolini regista: Accattone, Mamma Roma e La ricotta.

In ultima analisi il libro si presenta come una frammentaria raccolta di esperimenti narrativi sintomatici della ricerca di nuovi strumenti letterari, di nuove ambientazioni attraverso l'elevazione del dialetto, da lingua arcaica e preborghese, a lingua viva e in un certo senso rivoluzionaria.

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