martedì 12 agosto 2008

Approfondimenti - Pasolini Narratore

PASOLINI NARRATORE 1946-1961

Pasolini in barca nel 1947 (www.pasolini.net)

E’ più amato e famoso come poeta (il maggiore poeta civile italiano contemporaneo, secondo Moravia), piuttosto che come narratore di romanzi e racconti. Ai suoi sono preferiti i romanzi e i racconti di un Moravia o un Calvino, solo per fare due nomi. Eppure anche la sua opera narrativa è un tassello indispensabile nella costruzione di quel mosaico che doveva essere la sua testimonianza globale.

Pur essendo conscio sin da piccolissimo della propria diversità sessuale, ebbe le prime esperienze omosessuali solo nel '44, a ventidue anni. Cominciò quindi a tenere una sorta di diario in cui confessava dolorosamente l'omoerotia, che non riuscì ad accettare mai del tutto, perché sentiva che veniva da fuori, cioè non era connaturale con la sua anima. Più tardi inizia a scrivere due romanzi, Atti impuri e Amado mio, nei quali "oggettiva" l'esperienza sessuale diversa, servendosi di due personaggi: Paolo (protagonista di Atti impuri, nel quale si riconosce pienamente) e Desiderio (protagonista invece di Amado mio, riflesso della parte oscura di sé - o, meglio, di tutti - una sorta di dandy frivolo e gaudente, a tratti geloso ed anche vendicativo).

Paolo (il cui carattere mansueto corrisponde alla psiche dell'Autore) dice di sé:

"la recente perdita della verginità di adolescente [...] mi aveva tolto molto del mio candore e della mia aspirazione alla bontà."

E agli angeli che lo tormentano dichiara:

"Dio [...] se proprio mi vuole, si faccia temere in me, non nei suoi innocenti [...]. Tutto questo è stato scritto ad ogni modo a un solo fine: quello di ottenere un'autorizzazione. Io chiedevo a Dio di autorizzarmi a peccare!"

Quanto a Desiderio, Pasolini scrive nella prefazione ai due romanzi, che era costretto a immergerlo "in un diluente «cattivo», vuol dire che ero obbligato a farlo e che era sotto questa luce che io dovevo apparire ai lettori di questo libro "

Perché essere considerato peggiore di quel che era? Usava se stesso, la propria reputazione, per indurre il lettore a un "viaggio" nell'inconscio pieno di peccati, da illuminare appunto con la luce della coscienza, contro ogni dannosa rimozione. In quest'ottica possono essere spiegate anche le descrizioni minuziose di perversioni ed incesti, nel suo ultimo romanzo, incompiuto, Petrolio.

Al 1951 risale un progetto su un poema sul mare, in cui avrebbe dovuto mescolare una storia cosmologica del mare con vicende della propria infanzia. Scrisse qualche decina di pagine, in due opere incomplete, Coleo di Samo e Operetta marina. Riferiscono Walter Siti e Silvia De Laude nella notizia sui testi:

"da bambino Pasolini aveva chiamato "teta veleta" i suoi primi turbamenti sessuali; "Thetys", gli aveva detto Contini, in greco significa sesso; ed era, per di più, il nome dato dai geologi al mare triassico da cui si era formato il Mediterraneo. A tutto questo si aggiungeva l'identificazione fra l'emozione erotica e l'emozione legata, da bambino, alle fantasticherie marine."

In realtà Contini aveva sbagliato perché "Thetys" in greco non significa "sesso".

Dice l'Autore friulano: "Noi veniamo dal mare, non dal cielo."

Nell'Operetta marina spiega meglio che il cielo ci chiederebbe di sopprimere il "nostro vizio" e il nostro passato, mentre il mare ci permette non solo di "essere sempre, beatamente, indifferenziatamente noi stessi" ma di "essere anche quello che siamo stati, di effetto in causa, dunque, nel pieno, continuo calore della vita..."

"questo mare appena creato non dalla volontà di Dio e non poetizzato dalla violentissima paratassi dei versetti biblici, ma da una meccanica che supera ogni espressione "

Quello che conta non è tanto la cosa in sé (il mare) quanto l'espressione stessa, quindi la storia stratificata delle varie espressioni che "creano", in questo caso, la "vera storia del Mare".

Nell'Operetta marina, apprendiamo, tra l'altro, nelle notizie sulla sua infanzia, che a causa della frequentazione con due ragazzette:

"i miei compagni si erano fatti una mia immagine di impube Don Giovanni "

Sono, d'altra parte, anche le letture che egli fa, a dargli una idea di necessità della propria diversità (mentre gli altri suoi compagni seguiranno per lo più la via di una esistenza normale), da vivere per dare e darsi conoscenza:

"si vede che come nella materia tutti gli squilibri sono compensati, così nelle cose dello spirito, forse, esiste un tale equilibrio per cui una cosa non pensata o mal pensata, poniamo, da una gran quantità di spiriti, deve essere pensata e sofferta da una minoranza, ma con tanta intensità e fedeltà da compensare la sproporzione."

Così scrive infatti all'amico Franco Farolfi, in una lettera del 1943. Raccogliendo tutti questi indizi, possiamo congetturare che il suo impegno culturale ed esistenziale nasce come "destino" se intendiamo dare a questo termine il senso di "destinazione" da parte della cultura (come stratificazione delle espressioni) che lo ha preceduto, conoscendo la quale egli si immette sulla sua via personale e atipica rispetto a una normalità, che pure poteva vivere fisicamente ma alla quale "deve" rinunciare . Certamente questa mia congettura non coincide a pieno con altre espressioni che Pasolini riferisce sulla sua diversità, come qualcosa di predestinato, ma è possibile una sintesi se pensiamo che il destino non è coattivo, ma è come se lo fosse, in un animo generoso come quello di lui, che non poteva sottrarsi a questo suo "cammino" per sé e per gli altri.

Nel '49 fugge a Roma con la madre, dopo che è stato denunciato per corruzione di minorenni e atti osceni in luogo pubblico, ed espulso anche dal partito comunista. Di questo che fu il dramma della sua vita, c'è una trasfigurazione in un romanzo incompiuto di qualche anno dopo, dal titolo Il disprezzo della provincia. Qui non parla direttamente della sua disavventura, ma si sdoppia in due personaggi, entrambi letterati, ed anche impegnati in politica (uno come militante, l'altro simpatizzante). Essi, in quanto intellettuali liberi, sono osteggiati da tutti gli altri, che hanno preferito, per convenienza, sottomettersi a un qualsivoglia potere. Quando uno dei due cade per un fattaccio non ben precisato nel romanzo, è costretto, proprio come Pasolini, a fuggire via. Il vizio, tollerato e nascosto in tutta omertà solo se commesso da parte degli "integrati" (alla società di provincia, apparentemente pulita), è invece motivo di scandalo quando a cadere è uno che non si è piegato dinanzi ai potenti. I due intellettuali protagonisti sono consapevoli di rappresentare nei confronti del loro ambiente, ciò che erano gli ebrei durante la cattività babilonese: degli intoccabili.

Ragazzi di vita esce da Garzanti nel maggio 1955. L'autore è affascinato dalla vita dei borgatari romani, conosce molti sottoproletari che vivono di espedienti, spesso fanno i ladri o si prostituiscono. Nel romanzo narra le vicende del Riccetto e dei suoi compari, delle loro giornate gaie e lontanissime dalla morale borghese, almeno fino a quando il Riccetto non si fidanza e trova lavoro. Mentre da adolescente è persino capace di rischiare la vita tuffandosi in acqua per salvare una rondine in difficoltà, alla fine del romanzo, ormai uomo e reso disincantato dall'esperienza, e da tre anni di carcere, non si butta nel fiume per salvare un ragazzino che muore affogato. Un sottoproletariato allegro, dalla battuta salace, nell'alterità rispetto a un potere civile e religioso ad esso estraneo, quel potere che non garantisce equamente un posto di lavoro a tutti e quindi costringe indirettamente al crimine.

Il romanzo successivo sui borgatari esce nel 1959: Una vita violenta. Narra le vicende di Tommaso, giovane ladruncolo romano, che passa da una ingenua fede di estrema destra, a motivo del culto virile per Mussolini, che pure non gli impedisce, a volte, di guadagnarsi la pagnotta andando con i "frosci", alla scoperta, nuova per lui, di uomini disinteressati, militanti comunisti; conosce questi ultimi al sanatorio, dove è stato ricoverato per una forma non grave di tubercolosi, che però si aggrava repentinamente quando, per salvare una prostituta dalla inondazione che devasta le baracche, si dà il colpo di grazia: la mattina seguente sbocca sangue, lo ricoverano in ospedale ma, essendo ormai segnato, decide di voler morire a casa sua (non alle baracche, perché già da tempo si era trasferito alle case INA, vivendo un'altra scoperta: quella della superiore, a suo modo di vedere, mentalità degli studentelli piccolo-borghesi). Dopo una gioventù spesa in rapine, violenze varie e marchette, muore riscattato, al punto che i compagni comunisti intitolano a suo nome la sezione di Pietralata.

Sono gli anni '50, ancora, e Pasolini abiurerà in seguito a questo "ridicolo decennio", ridicolo per le speranze da lui stesso vissute in ordine a un riscatto collettivo dei sottoproletari all'ombra di una bandiera rossa, che invece negli anni successivi, con la mutazione antropologica degli italiani, i quali diventeranno tutti dei piccoli borghesi incapaci di qualunque azione disinteressata e attaccati al solo benessere materiale, sarà uno strumento retorico, usato a fini propagandistici da una sinistra che, accettando il consumismo, rinnegherà il pensiero autentico dei propri padri fondatori, quale fu, primo fra tutti, l'amato (da Pasolini) Gramsci.

C'era ancora (ma per poco tempo) un mondo incontaminato, nel mondo del neocapitalismo incipiente: l'oriente, con la sua civiltà non fondata sulla volontà di potenza, come invece qui da noi occidentali; la civiltà indiana, soprattutto, all'insegna della rassegnazione. Appartiene al 1960 un viaggio del nostro con Moravia ed Elsa Morante, in India appunto, il cui resoconto Pasolini (anche Moravia ne scriverà uno suo: Un'idea dell'India) pubblica a puntate sul "Giorno", e successivamente, nel 1962, nel volume L'odore dell'India. A causa della miseria, gli indiani poveri, cioè la maggioranza, non possono essere felici, eppure c'è in loro una forma di gioia, "quasi allegria: è tenerezza, è umiltà verso il mondo, è amore..."

Un'India, quella che conoscono i nostri tre simpatici visitatori, quasi del tutto priva di volgarità, un popolo educato, mite persino alle fermate degli autobus, con ragazzini calmi anche quando chiedono l'elemosina (Pasolini aiuta uno di loro a trovare una sistemazione presso un religioso cattolico che non cercherà di indurre il ragazzo a convertirsi al cattolicesimo: la libertà religiosa degli indiani è proverbiale, e solo i musulmani hanno un carattere più austero a causa delle certezze date dal Corano). Durante questo viaggio il nostro conosce pure Madre Teresa di Calcutta, che gli appare un esempio di vera bontà, cioè bontà senza sentimentalismi, pazientemente pratica.

Si è detto: Pasolini anche autore di racconti. Inizialmente non può non scrivere della sua iniziazione alla omosessualità, quasi fosse una necessità non puramente corporale, ma altruistica. In un primo racconto l'Arcangelo dice al Santo per convincerlo a rinunciare alla sua purezza:

"Solo dopo il peccato e la vergogna ti potrai sentire veramente umile: solo allora ti sentirai di terra, e inutile, e triste e stretto agli altri uomini quasi ti affratellasse ad essi l'omertà di una medesima colpa."

In altri racconti descrive le condizioni di miseria disumana in cui vivono i sottoproletari nei tuguri sparsi nella periferia romana, quasi campi di concentramento. In altri parla dei diletti viaggi nel Meridione d'Italia, dove si imbatte in giovani colti che sono la sua speranza, e in altri, fascisti, che pur simpatici quando si tratta di mangiare insieme o bere del vino, però gli provocano dolore al pensiero di quanto siano compromessi con il potere clerico-fascista, che ovviamente lo odia e provoca quegli stessi giovani a una sorta di linciaggio verso di lui. In altri ancora descrive le cene o gli incontri con gli amici letterati, insieme a lui "anime belle", disinteressate e anche sfruttate da editori e produttori cinematografici non sempre propensi a pagare il compenso come da contratto.

Scopriamo in altri racconti ancora, un Pasolini superstizioso, che crede all'oroscopo da rotocalco e alla jella .

C'è il dolore infine per l'immagine distorta che danno di lui i rotocalchi, ma non solo di lui, pure di registi meno scandalosi come Fellini .

Voglio concludere questa "puntata" del mio saggio, ricordando la stima che aveva Pasolini per Moravia, tanto che in un racconto scrisse:

"L'intelligenza è bontà e la bontà è intelligenza; se, per lui, posso parafrasare Keats."

Non chiedetemi dove Keats abbia espresso questo concetto, perché non ne ho la più pallida idea!

PASOLINI NARRATORE 1962-1975

www.pasolini.net

Questa seconda fase dell'esperienza narrativa di Pasolini, che va dal 1962 alla morte, è per noi che leggiamo ormai nel XXI secolo, quella più interessante, in quanto mostra l'evoluzione del suo pensiero di fronte alla mutazione antropologica degli italiani a causa del consumismo neocapitalistico. Ma nel 1962, quando pubblica il romanzo Il sogno di una cosa, la "mutazione" non è ancora certa - nemmeno agli occhi più prevedenti di lui - e hanno ancora senso, come scrive in quarta di copertina, "le ragioni [...] di una partecipazione diretta e tenace ad una realtà in cui gli istinti lirici iniziali si sono venuti via via concentrando in un incontrastato impegno morale."

Il titolo prende spunto da una frase di Marx, posta in epigrafe al romanzo:

"Il nostro motto dev'essere dunque: riforma della coscienza non per mezzo di dogmi, ma mediante l'analisi della coscienza non chiara a se stessa, o si presenti sotto forma religiosa o politica. Apparirà allora che il mondo ha da lungo tempo il sogno di una cosa... K. Marx, da una lettera a Ruge, da Kreutznach (settembre 1843) "

E' chiaro quindi che il "sogno di una cosa" altro non è che l'avvento di un mondo finalmente giusto, sognato (anche) dai tre protagonisti del romanzo pasoliniano, costretti ad emigrare, nel 1948, all'estero, due di loro in Jugoslavia e uno in Svizzera, perché in Italia c'è disoccupazione. All'estero però vengono sfruttati nel lavoro, trattati male e soffrono pure la fame, così ritornano nel Friuli, dove partecipano a una manifestazione comunista per l'applicazione corretta del lodo De Gasperi, affinché i proprietari di terre aiutino i mezzadri ed i braccianti, cedendo ai primi parte dei profitti e assumendo i secondi come manodopera, in riparazione dei danni subiti durante la guerra. Ovviamente in aiuto dei proprietari, scendono in campo polizia ed esercito, per disperdere i manifestanti che vorrebbero occupare (e in qualche caso riescono) le case dei padroni.

Ci sono pure le vicende sentimentali, di uno dei tre in particolare, il Nini, che in una famiglia di contadini che stanno piuttosto bene grazie all'alleanza con i preti, conosce una ragazza timida e ingenua, Cecilia, che alla fine si farà suora, perché intanto il Nini, consapevole della sua estraneità a quel mondo clericale, che vede di malocchio i comunisti come lui pur trattandolo apparentemente con simpatia, sposa una ragazza più emancipata, dopo averla messa incinta.

Il romanzo termina con la morte di Eligio, ammalatosi per il duro lavoro alle cave, e visitato in ospedale dai due amici, il Nini appunto e Milio.

Altri materiali non furono pubblicati, ma si conservano ugualmente e sono stati inseriti dai curatori dell'edizione "I Meridiani" in una apposita Appendice a "Il sogno di una cosa". In particolare vi si narra la storia di un prete atipico, il giovane Don Paolo, che non è un fariseo e porta avanti un discorso autentico (di matrice esistenzialista) con la sua coscienza e con i paesani. Fonda pure un doposcuola - e qui ricalca l'esperienza analoga di Pasolini e la madre in Friuli - insegnando ai ragazzini senza osservare alla lettera i metodi pedagogici, anche quelli moderni, che vedono la realtà con un occhio troppo razionale, e non tengono conto della componente irrazionale che è in noi, che deve essere conosciuta attraverso un esame attento (quindi amoroso) della Realtà, che non è mai statica ma muta continuamente, secondo i giochi imprevedibili della Provvidenza. C'è pure il turbamento omoerotico del giovane prete a metterlo in cattiva luce dinanzi ai suoi superiori (essi sì, farisei), e il dialogo (da loro poi vietato) con un giovane comunista, che ha le idee fin troppo chiare sulla società. Il sacerdote morirà ucciso dai colpi di mitra dei poliziotti, per coprire un manifestante durante le famose dimostrazioni contro i padroni, di cui abbiamo già parlato.

C'è un personaggio inquietante, Aspreno, che non compare nella redazione definitiva del romanzo e, a mio modo di vedere, rappresenta la parte oscura di ogni uomo. Infatti è un giovane aristocratico che viene da Roma per visitare la cugina friulana: a causa del complesso edipico non risolto, odia il padre ed è incapace di amare, perché la sua maledizione è di provare solo desiderio sessuale: nelle donne vede, in fondo, quella madre da lui più volte uccisa metaforicamente, in questi suoi rapporti disperati e privi di sentimento autentico. E' intelligente ma disprezza la cultura, perciò è privo di senso critico, sa giudicare anche con acume, ma non spiegare gli eventi. Ammira superficialmente il marxismo, pronto a convertirvisi con la ragione e non col cuore, perché il suo cuore è pieno solo di sé, costretto a divertirsi per non annoiarsi. Il guaio è che viene pure assecondato dalla compagnia dei giovani friulani, che vedono in lui un uomo superiore, che può permettersi anche di corteggiare le ragazze fidanzate. Ma in fondo è scontento di sé e verrà messo in crisi dalle parole di Don Paolo che lo esorta a mettere Dio al posto della sua coscienza macchiata, per cui, nel viaggio di ritorno a Roma, "il treno correva verso Dio "

Infine c'è il personaggio di Renata o Pina L. (maschilizzata in Renato, nel romanzo definitivo, senza riferimento a quanto segue), giovane insegnante innamorata di Don Paolo, che invece è attratto da un ragazzino; ella, per il comunismo, ha tradito la Chiesa, almeno agli occhi dei clericali, e viene duramente contestata e offesa, per una sua frase, quando ha scritto in un giornale murale: "Verrà il vero Cristo, operaio, a insegnarti ad avere veri sogni "

Questo è il dramma, secondo Pasolini: molti poveri, invece di sognare i veri sogni della cultura e dell'amore, sognano di diventare come i padroni.

Al 1965 appartiene il composito Alì dagli occhi azzurri. Scrivono i curatori del Pasolini narratore nella collana "I Meridiani", che stiamo seguendo con paziente e gioiosa curiosità:

"Sono racconti, relitti di romanzi, versi in italiano e in romanesco, rielaborazioni di sceneggiature ed esperimenti di prosimetron, che Pasolini scrive fra il '50 e il '65."(5)

Non appena giunto a Roma con la madre, fuggitivi dal Friuli, mentre cerca lavoro, ha in cuore la conoscenza dell'ambiente borgataro, cinico, violento, ma al tempo stesso simpatico, conoscenza che è soprattutto fondata sul linguaggio. La sessualità è ancora allegramente esibita, da parte dei giovani sottoproletari, non ancora "mutati" antropologicamente. Essi sono peccatori (riguardo ai furti e alle violenze) per la loro inconsapevolezza morale, che li rende sì colpevoli, ma in fondo vittime della società borghese (cui sono estranei per il legame a una loro civiltà arcaica). Non mancano le denunce sociali del nostro, come nel caso della macellazione clandestina a Roma, posta in essere dagli stessi mercanti .

Le sceneggiature ridotte a racconti sono quelle di alcuni suoi film (Accattone, Mamma Roma, episodio La ricotta nel film di più registi RoGoPaG) e de La notte brava di Bolognini. Avrebbe voluto intervenire maggiormente sui testi, per motivi estetici, ma non lo fece, perché "altro" era il suo fine: quello, appunto, di aiutare il lettore (e lo spettatore cinematografico) a sottrarsi alla cultura media borghese e avere un rapporto autentico, non mistificato, con la Realtà: un rapporto che dà una felicità inspiegabile e apparentemente irrazionale agli occhi di chi non lo prova.

Il titolo della raccolta prende il nome dal racconto, fattogli da Sartre, della storia di Alì dagli occhi azzurri, un personaggio simbolico e quindi anche plurimo, che si mette alla guida degli immigrati che un giorno invaderanno l'Occidente, con la violenza e con il diritto di insegnare a noi occidentali la gioia di vivere. Una profezia che voleva evidentemente avvertirci di come il mondo sia "uno", pur nelle differenze territoriali, e che gli sfruttati del Terzo mondo, prima o poi avanzeranno oltre i nostri confini, cosa che si è avverata già, in modi a volte simili (si pensi alle violenze commesse da e contro extracomunitari) e a volte con l'amorevole scambio culturale tra noi e loro, certo da preferire allo scontro. La nostra società evidentemente ha subìto la mutazione antropologica nel senso di imborghesimento totale, che però non si è avuta sempre (fortunatamente) nei modi terribili che presagiva Pasolini, ma con una complessità che lascia spazio (almeno per i non intolleranti) all'interessante scambio multiculturale. Non dobbiamo essere moralisti nei confronti degli immigrati e di tutti i "diversi" perché, ci ricorda l'Autore: "Il moralismo è l'alibi per il lupo che sopprime l'agnello." 'altra parte, come scrive invece Oriana Fallaci (peraltro amica di Pasolini) nelle sue opere, non dobbiamo rinunciare alla nostra identità di cristiani e occidentali. Bisogna trovare un giusto equilibrio tra il rispetto di sé e il rispetto del diverso da sé.

Nel 1968 pubblica il romanzo Teorema ed esce contemporaneamente l'omonimo film da lui stesso diretto. In una famiglia milanese della ricca borghesia industriale, arriva un giovane ospite, borghese anche lui, ma così bello e dolcemente paterno/materno, da apparire come estraneo ad ogni classificazione sociale. La sua sola presenza mette in crisi tutti i componenti della famiglia, che gli chiedono tacitamente di essere posseduti sessualmente: lui lo fa comprensivo e lievemente ironico. Anche la serva Emilia, che pur appartiene a una classe sociale inferiore, cioè contadina, è sconvolta dall'aspetto inconsueto del giovane, al punto da tentare persino il suicidio e lui la salva e poi la possiede, come è (tacito) desiderio di lei.

Improvvisamente l'ospite deve lasciare la villa. La sua partenza provoca nei componenti della famiglia e nella serva una svolta esistenziale che mette fine al loro destino di "normalità".

La serva Emilia lascia la villa e si ritira in campagna dove diventa una santa, si ciba solo di ortiche, opera guarigioni ed esperisce la levitazione. Finirà per farsi seppellire viva da una scavatrice, ed anche da morta opererà una guarigione miracolosa, perché dalle sue lacrime sgorgherà uno zampillo d'acqua; un umile operaio risanerà una ferita sanguinante bagnando la sua mano in quella pozza d'acqua. Emilia è l'unica che ha tratto una lezione salvifica per sé e per gli altri (per i quali si sacrifica) dalla conoscenza dell'ospite misterioso.

I quattro componenti della famiglia, invece, non sopportano l'assenza del giovane. Tre si perdono in esperienze inautentiche, surrogato di quell'unica esperienza vera che è stata data dall'incontro con lui: Odetta (la figlia) si immobilizza in un letto di clinica psichiatrica; Pietro (il figlio) diventa un artista protestatario e ribelle in apparenza, perché in realtà è un pittore disgustato di sé e delle sue opere nate per caso; Lucia (la madre) abborda per strada ragazzi che le ricordano quell'Adorabile, ma i suoi rapporti sessuali con loro sono deludenti, pur lasciandole un sentimento di tenerezza materna.

Per Paolo (il padre) il discorso è un po' diverso. Egli dona la fabbrica agli operai e si spoglia dei suoi abiti nella stazione della città, di fronte a una folla allarmata; a mio parere la sua salvezza c'è ma è di secondo grado, rispetto a quella completa di Emilia. E' spinto sulla via del deserto, in cui la realtà è completamente priva di tutto ciò che non è necessario, mantenendo la sola sua essenza originaria, che è l'unicità: il deserto è uguale in ogni sua parte, unico, appunto. Il romanzo termina con l'urlo, al tempo stesso terribile e gioioso, pieno di speranza e disperazione da parte di Paolo, un urlo "destinato a durare oltre ogni possibile fine."

E' come se Paolo avesse sì scommesso su Dio (che gli si è rivelato prima attraverso il giovane ospite e poi attraverso il deserto), Dio come vita essenziale, ma non ha certezza, non sa soprattutto se Lui lo ama davvero: perciò quest'urlo è (anche) una richiesta di attenzione. Emilia, invece, più buona in fondo, non pensa nemmeno alla salvezza, si dona completamente al prossimo, vivendo nel suo stesso corpo (come Pasolini), l'ardore della "caritas", fino al sacrificio di sé. Non è un caso che nel film la vecchietta che accompagna Emilia alla buca dove si farà seppellire viva, è interpretata proprio dalla madre di Pasolini.

Già alla fine degli anni '50 ebbe l'idea di scrivere, come imitazione moderna della Divina Commedia, un viaggio all'inferno da parte di una prostituta romana accompagnata da Dante, me ne risultarono solo pochi

Il progetto si sarebbe realizzato, sia pur diversificato nel titolo (La Divina Mimesis) e nei protagonisti: il viaggiatore è il Pasolini degli anni '60 accompagnato da se stesso più giovane di un decennio. L'opera, incompiuta, sarà consegnata all'editore Einaudi nel '75 e uscirà pochi giorni dopo la sua morte.

E' dal '63 che vede esaurite le possibilità dell'impegno civile come l'ha concepito nei due decenni precedenti; si rende conto che l'imborghesimento mondiale è inevitabile, sia che assuma la veste neocapitalistica sia quella comunista. Non può sapere quale dei due "paradisi" progettati (il comunista o il neocapitalistico) vincerà ma sa già che c'è poca differenza culturale tra loro: è la stessa cultura di massa da lui odiata. Allora, per continuare ad esprimersi, deve per forza usare uno stile diverso (che sarà quello delle ultime poesie e di Petrolio), uno stile che delude continuamente, pretende, da lui così sensato, l'arbitrario e la dissimulazione della speranza, altrimenti "ridicola" e inefficace se rivelata manifestamente (ma rimane sempre la stessa speranza partigiana di una rigenerazione del mondo).

L'inferno che visita è per noi italiani quello nascente neocapitalistico (che poi risulterà vincente sul comunismo). La figura più consueta di dannato è il conformista moralista: conformista perché teme la grandezza e si rifugia nell'anonimato della "normalità"; moralista perché non smette di giudicare l'altro come suo nemico, anche se gli somiglia, anzi... soprattutto quando gli somiglia:

"Odiamo il conformismo degli altri perché è questo che ci trattiene dall'interessarci al nostro. Ognuno di noi odia nell'altro come in un lager il proprio destino. Non sopportiamo che gli altri abbiano una vita e delle abitudini sotto un altro cielo. Vorremmo sempre che qualcosa di esterno, come per esempio un terremoto, un bombardamento, una rivoluzione, rompesse le abitudini dei milioni di piccoli borghesi che ci circondano. Per questo è stato Hitler il nostro vero, assoluto eroe."

Le eccezioni, quindi, sono date solo dai poeti, che non appartengono ad alcuna classe sociale, e ricchi o poveri che siano, soffrono sempre perché non vedono realizzato nel mondo l'amore disinteressato per la vita: tutto invece è oggetto di consumo, mera merce. Nell'Irrealtà il poeta è l'unico a testimoniare la Realtà con "l'altezza del suo stile, la purezza della sua parola."

A chi si riferisce quando parla di "poeti"? Non certo agli "uomini di cultura, abituati a starsene zitti nei momenti di pericolo, e a parlare, soltanto a parlare, nei momenti di relativa tranquillità."

Verso questi ultimi manifesta una profonda avversione, perché essi avevano gli strumenti culturali per diventare veri poeti (nell'animo), e vi hanno rinunciato per viltà, diventando incapaci di autentica indignazione verso la meschinità e la volgarità imperanti: indignazione che è l'esatto contrario del moralismo.

Il romanzo incompiuto Petrolio è l'ultima sua avventura narrativa, scritto tra il '72 e il '75, anno della morte. In forma di appunti, narra le vicende di un ingegnere piemontese, cattolico moderato, abbastanza colto ma non al punto di fare "dello stato schizoide [in cui vive l'uomo contemporaneo, aggiungo io] uno stato naturale e dell'ambiguità un modo di essere."

Il suo nome è Carlo, come si chiamava il padre di Pasolini, ufficiale dell'esercito al tempo del fascismo e fascista convinto, che ebbe verso la sua famiglia un atteggiamento autoritario e terrorizzante. Ma questo Carlo di Petrolio non somiglia per niente al padre dell'autore. Qui si manifesta l'arbitrarietà ludica, anche nella scelta dei nomi e delle associazioni di idee.

Questo ingegnere piemontese, destinato a diventare un uomo di potere nell'ENI di Mattei e soprattutto dopo la morte misteriosa di quest'ultimo, ha una doppia vita, tanto che Pasolini lo sdoppia in due personaggi distinti: Carlo I, l'uomo di potere represso e sublimato; Carlo II, che invece vive esperienze sessuali perverse (dall'incesto alla pedofilia) sino a quando non scopre l'omoerotia, facendo l'amore, uno alla volta, con un gruppo di venti ragazzi del popolo, dopo che si è trasformato in donna. Ma Carlo II scompare, e Carlo I si ritrova nella necessità, anch'egli trasformato in donna, con organi genitali femminili e seno, di fare l'amore con uomini, ma non ha il coraggio perverso del suo "doppio" né può essere attratto dai ragazzi del popolo, che non capisce a causa del suo sentimento medio-borghese. Allora si invaghisce, fatalmente, di un giovane del popolo, sì, ma fascista e "uomo d'onore", in quanto mafioso siciliano.

Le descrizioni che son date di tutti i rapporti sessuali hanno, secondo la mia interpretazione, la necessità di indurre il lettore a una analisi sincera del proprio inconscio. Infatti l'autore scriverà a Moravia, consegnandogli in lettura il manoscritto:

"Questo romanzo non serve più molto alla mia vita (come sono i romanzi o le poesie che si scrivono da giovani), non è un proclama, ehi, uomini! io esisto, ma il preambolo di un testamento, la testimonianza di quel poco di sapere che uno ha accumulato, ed è completamente diverso da quello che si aspettava!"

Questo "sapere" prezioso comprende altri fatti:

a) la mutazione antropologica degli italiani, a causa della nuova cultura di massa fondata sulla ricerca del benessere e sul consumo di beni superflui, con l'abbandono dei valori culturali che facevano del popolo un ceto distinto e contrario alla borghesia:

"[...] è atroce vivere e conoscere un mondo dove gli occhi non sanno più dare uno sguardo non dico di amore, ma neppure di curiosità o simpatia. Benché io [cioè Pasolini] sia ormai 'contento del deserto', provo, a pensarci uno di quegli spasimi che solitamente impediscono di esprimersi o di parlare civilmente: soltanto chi ama, soffre nel vedere che le persone amate cambiano. Chi non ama non se ne accorge neppure. Ai politici non gliene importa niente dei poveri; agli intellettuali non gliene importa niente dei giovani. E quindi non solo non soffrono a causa del loro cambiamento, ma, appunto, non se ne accorgono nemmeno."

L'imborghesimento generale del mondo, impedisce quindi la realizzazione del sogno gramsciano (fatto proprio da Pasolini nel tempo dei progetti giovanili) della fondazione di una repubblica italiana nazional-popolare, con l'alleanza tra popolo (operai e contadini) e intellettuali. Un sogno frantumato. Ma è la Realtà che è superiore anche alla testa di Pasolini o di Gramsci, ed Essa segue le sue vie, come risultato di una lotta tra pulsione di salvezza e rigenerazione del mondo e pulsione di autodistruzione. Entrambi gli esiti sono possibili, dipende tutto dalla volontà di vita dell'uomo. La speranza è che, prima che finisca la risorsa che dà il nome al romanzo, cioè il petrolio, gli uomini sappiano davvero darsi "un meraviglioso impulso alle ricerche scientifiche e all'organizzazione economica " per far riprendere il corso della storia.

b) il racconto delle strategie politiche dell'Italia tra la fine degli anni '60 e i primi anni '70, quando si fa dell'anticomunismo e dell'antifascismo, degli alibi per nascondere la vera natura del nuovo potere neocapitalistico, assolutamente privo di valori che non siano quelli del profitto (quindi anche la Chiesa non è che un alleato politico e un potere finanziario, e i suoi dogmi e la sua morale non hanno reale presa sui cittadini, se non nominalmente, cioè ipocritamente); le stragi, attribuite agli anarchici o ai comunisti o ai fascisti, a seconda della convenienza del momento, rappresentano la dolorosa (soprattutto per i familiari delle vittime) memoria storica dell'Italia di quegli anni.

Tanti altri sono i contenuti eccezionali di Petrolio: descriverli tutti richiederebbe un saggio a parte. E' più opportuno, adesso, un caloroso invito alla lettura diretta del romanzo stesso.

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