mercoledì 13 agosto 2008

La Morte Del Corsaro - Parte 1

Pasolini assassinato a Ostia..
L'omicida (17 anni) catturato confessa..
Il corpo straziato dello scrittore
ritrovato su uno spiazzo a duecento metri dal mare.
di Ulderico Munzi
"Corriere della Sera", 3 novembre 1975 .
Roma, 2 novembre 1975 - Pier Paolo Pasolini è stato ucciso. E' accaduto stanotte a Ostia, a duecento metri dal mare. La scena del delitto è uno sterrato deserto su cui sorgono delle squallide casupole abusive, quasi delle baracche. Lo scrittore è stato massacrato a colpi di bastone. Poi l'assassino ha schiacciato il suo corpo steso a terra nella polvere con le ruote di una automobile. Chi ha agito in modo così spietato è un ragazzo di 17 anni e 4 mesi, un ragazzo di borgata. Si chiama Giuseppe Pelosi, abita sulla Tiburtina. Sembra uno di quei tragici giovani descritti da Pasolini: magro, slanciato, altezza media, volto ancora infantile ma marcato, capelli ricci. Giuseppe Pelosi, arrestato dai carabinieri, ha confessato al giudice il suo crimine: «Mi ero inferocito e l'ho colpito sempre più forte e quando l'ho visto a terra sono corso alla macchina e sono passato sopra di lui».

Un fatto atroce. Adesso che la salma di Pier Paolo Pasolini giace in una cella dell'obitorio e che il ragazzo di borgata trascorre la sua prima notte di orrore in una cella d'isolamento, possiamo tentare di ricostruirlo con le testimonianze e i dati in nostro possesso. Ci sono ancora molti punti oscuri sui quali si dovrà fare luce. Ecco la cronaca delle ultime ore di Pasolini, 53 anni, rientrato a Roma due giorni fa da Parigi. È l'ultima "notte brava".

Sono le 22. Lo scrittore siede a un tavolo del ristorante "Il Pomodoro" nel quartiere San Lorenzo, una zona popolare a sud di Roma. E in compagnia di Ninetto Davoli, suo vecchio amico, protagonista di alcuni suoi film. E con Davoli c'è la sua famigliola: la moglie e i due figli. Stanno finendo di mangiare. Pasolini parla della sua attività artistica con la sua voce sottile. Nessun segno insolito trapela dal suo comportamento. Riferisce Ninetto Davoli:

«Ci ha parlato anche di questa violenza che ci circonda. Mi diceva che la vita nelle borgate non era più quella di una volta, quei giovani si erano trasformati, erano stati afferrati dal turbine del capitalismo». La violenza è l'argomento della serata. Una frase colpisce Ninetto Davoli: «E odiosa la gente», dice a un tratto Pasolini. E aggiunge: «Venendo al ristorante ho sempre camminato a testa bassa, non volevo vedere in faccia nessuno».

Alle 22.30 la piccola comitiva si scioglie. «Vado a dare un'occhiata a una sceneggiatura», dice Pier Paolo Pasolini salendo sulla sua "Alfa Romeo" sportiva di colore argento. La Stazione Termini non è distante dal quartiere San Lorenzo. Solo nella sua Alfa Romeo, Pasolini vi giunge alle 23 e qualche minuto. E comincia a girare per quelle strade che raccolgono teppa, prostitute e ragazzi di vita. Cerca compagnia e la trova alle 23.30.

Sul marciapiede che corre lungo i portici di piazza dei Cinquecento, sulla destra della stazione, sosta un gruppo di ragazzi. Sono da poco usciti da un cinema. Giuseppe Pelosi, dopo aver confessato il delitto, ha così raccontato agli inquirenti l'incidente con lo scrittore. «S'è accostata una "GT" metallizzata, c'era un uomo dentro che m'ha invitato a fare un giro. L'ho riconosciuto subito, era quel Pasolini...». Giuseppe Pelosi accetta e sale. Si sente fiero e, nello stesso tempo, fiuta una grossa avventura. Da un anno e mezzo ha smesso di fare il cascherino, cioè quei ragazzi che portano il pane ai fornai.

E andato a scuola fino alla seconda media e vive con la famiglia in via Antonio Fusinati, in una località denominata "Sette ville". Suo padre, Antonio, 44 anni, lavora come commesso in un negozio di articoli per regalo. Sua madre, Rosa Paoletti in Pelosi, lavora a casa. Giuseppe ha anche una sorella, Maria, 19 anni. La sua abitazione è modesta, si trova su una collinetta polverosa prima di Guidonia. E da un anno e mezzo Giuseppe vive di espedienti. Un furtarello gli è stato perdonato, un altro furtarello, compiuto su un pullman in sosta l'11 settembre, lo vede in galera per soli due giorni. Il 13 il giovane torna in libertà.

Di che cosa parlano nell'Alfa Romeo che si dirige verso l'Ostiense, Pasolini e il suo occasionale amico? Pelosi dice che Pasolini gli faceva molte domande. sulle sue idee, sul suo modo di vivere. «Capivo poco...». ammette con il giudice. Pasolini gli chiede: «Hai mangiato?». Lui risponde di no. E insieme entrano alle 23 e 30 in un ristorante, "Mario", della via Ostiense, vicino alla basilica di San Paolo. Lo scrittore è conosciuto. Il ragazzo è servito in fretta. Dice un cameriere: «Mangiava di buon appetito e Pasolini lo stava lì a guardare in silenzio».

A mezzanotte e dieci escono. A mezzanotte e quindici, sempre in via Ostiense, Pier Paolo Pasolini s'accorge di avere poca benzina. La "GT" si arresta a un distributore automatico della "Total". Aiutato da Pelosi, lo scrittore infila nella macchina tre biglietti da mille. È il giovane che infila la pompa nel serbatoio. Esiste un testimone, rintracciato dalla polizia, che segue questi gesti. Anche lui deve fare benzina.

A questo punto dobbiamo ricostruire le scene che seguono con l'aiuto degli esperti della polizia. Ci può aiutare, anche, la confessione del giovane, benché su di essa è lecito avanzare molti dubbi: è il parere dello stesso capo della Squadra mobile, Masone. La macchina di Pasolini fila sull'autostrada, raggiunge Ostia, volta a destra sul lungomare. percorre altri tre chilometri e rallenta, nella parte est della città, in una zona detta dell'idroscalo. È quasi l'una di notte. Non c'è nemmeno un lampione. Pasolini imbocca una strada stretta e piena di buche che costeggia baracche e cimiteri di automobili. Lo scrittore conosce la località. A un certo momento gira a sinistra e si arresta in un campo di football, polveroso. A qualche metro si scorgono le sagome basse delle casupole che la gente povera s'è costruita con le proprie mani abusivamente per stare nei giorni di festa vicino al mare. Un mare che non si vede ma che ieri era in burrasca. In questo campo di football, inquadrato tra le baracche, Pasolini viene spesso a giocare con i ragazzi di borgata.

Le prossime sequenze sono ricostruite con le dichiarazioni rese al giudice dal ragazzo. Egli dice: «Pasolini voleva avere rapporti con me. Io non volevo». Pare, invece, che Giuseppe Pelosi in un primo momento abbia accettato le richieste dello scrittore. Lo pensa la polizia. Ma una frase o un gesto debbono aver scatenato una discussione tra i due. Ecco che scendono dalla macchina. «Quello insisteva», dice ancora Pelosi. Contro una staccionata il diverbio si accende più violento. Racconta il giovane: «Pasolini ha preso un bastone e mi ha colpito». Effettivamente sulla sua testa c'è una ferita, c'è voluto un punto di sutura. Pelosi reagisce, stacca un pezzo di legno dalla staccionata e si scaglia sullo scrittore. Dà colpi su colpi finché non lo vede cadere a terra. Si allontana di qualche passo e, secondo la ricostruzione della polizia, fugge. Pasolini, sanguinante da due ferite che gli hanno quasi strappato le orecchie, riesce ad alzarsi e lo insegue.

Lo scrittore è un uomo robusto. «Probabilmente». dice un commissario, «voleva rincorrere il ragazzo non per fargli del male, ma per dirgli di smetterla di litigare». Pasolini vuole calmarlo. Lo chiama con quel soprannome. "Rana", con cui Pelosi è conosciuto dai suoi amici per i suoi occhi un po' sporgenti. "Rana" glielo aveva confidato poco prima. Nel silenzio dello sterrato si odono soltanto le loro grida. Quando viene ripreso, il ragazzo si scatena, colpisce ancora dopo aver strappato una targa da un cancello di legno dipinto di un rosa intenso: dietro quel cancello c'è abbandonata una sedia a dondolo per bambini.

Colpi alla nuca, sul cranio, sul volto, Pasolini crolla, agonizzante. sulla polvere grigia. Il ragazzo torna alla macchina, mette in moto e gli piomba addosso, sradicando, nella furia, un paletto di cemento armato. Sulla schiena di Pasolini ci sono i segni delle ruote. Lo scrittore indossa un paio di jeans, una maglietta verde che gli lascia le braccia nude, e un paio di stivaletti.

E adesso la fuga dell'assassino. Sono le una e quindici. Anche lui sanguina dalla ferita, si asciuga, guidando, con un fazzoletto che gli investigatori troveranno sui sedili beige dell'Alfa Romeo accanto a una raccolta del "Politecnico" di Vittorini. La "GT" sbuca sul lungomare e comincia la sua pazzesca corsa alla ricerca della strada per Roma. In viale Duilio imbocca un senso vietato. C'è una macchina dei carabinieri che si lancia all'inseguimento. Riferiscono i militi Antonio Cuzzupè e Giuseppe Guglielmi: «Ci siamo buttati all'inseguimento e poco dopo, di fronte allo stabilimento balneare "Tibi dabo", ci siamo affiancati alla "GT". L'uomo ch'era al volante ha fatto finta di fermarsi e poi è ripartito a tutta velocità. L'abbiamo ripreso dopo 700 metri e bloccato».

È l'una e venti. Nessuno ancora sa che Giuseppe Pelosi ha ucciso lo scrittore Pier Paolo Pasolini. I due carabinieri lo agguantano e lo portano in caserma. Racconta l'appuntato Cuzzupè: «Dopo averlo identificato, Pelosi ha ammesso il furto dell'auto. In un parcheggio di Roma. Piangeva, ripeteva: "Mamma perdonami per quel che ho fatto". Diceva ancora che lunedì doveva riprendere a lavorare. Non ci siamo sorpresi, nemmeno quando s'è rimesso a piangere perché gli si era detto della macchina di Pasolini. "Hai rubato a uno scrittore famoso"...».

Quando Giuseppe Pelosi è condotto nel carcere minorile di Casal del Marmo, alle 5 del mattino, nessuno ha ancora scoperto il corpo di Pasolini. Sul cadavere incombe il silenzio dello sterrato. La prima a scorgerlo è la signora Maria Teresa Lollobrigida. Ma non capisce subito. È scesa per scaricare i pacchi dalla macchina del marito. Sono le 6,30 e la luce è incerta. La donna dice: «Hanno buttato un sacco di immondezza, questi sporcaccioni». S'avvicina per toglierlo e, a due passi dal sacco d'immondizia, grida: «Alfredo, è un morto, c'è tanto sangue». Alfredo e suo figlio, Gianfranco, 27 anni, accorrono. «Corri dalla polizia», intima il padre. E Gianfranco salta in macchina a va al commissariato.

La donna, piccola, bruna, resta accanto al corpo di Pasolini assieme ad altri familiari. Erano venuti nella casupola per festeggiare con gnocchi e vino bianco un compleanno. C'è ancora tanto silenzio che, dopo cinque minuti, alle 6,45, è rotto dalla sirena della polizia.

Il commissario Vitali di Ostia si china accanto a Pier Paolo Pasolini. Comincia a venire gente. Lo scrittore giace bocconi, il braccio destro ripiegato sotto il torace, il sinistro lungo il fianco. Il commissario, quando gira il corpo dello sconosciuto, mormora stupito: «Mi sembra Pasolini...». È lui. C'è la sua camicia inzuppata di sangue vicino alla porta dei goal del campo sportivo, ci sono pozze di sangue a segnare i momenti in cui avrebbe inseguito Giuseppe Pelosi. Al primo sole c'è qualcosa che brilla a un metro dal corpo: un anello d'oro con un rubino rosso incastonato.

È la prova contro Giuseppe Pelosi, perché appartiene a lui: nessuno, però, ancora lo sa. Giungono i carabinieri, riferiscono la storia dell'automobile guidata da un giovane, si telefona allora alla caserma dell'Eur che si trova nei pressi di via Eufrate ove abita Pasolini. «Non è rientrato», dice la governante. È avvertito Ninetto Davoli che, alle 10, arriva sul luogo. «E Pier Paolo», dice piangendo. In quegli stessi istanti un carabiniere ricorda un particolare: il giovane arrestato nella notte a bordo dell'auto sì lamentava perché aveva perso un anello. «E un anello di valore, tutto oro», diceva. Qualcuno esamina la "GT" color argento: sotto la fiancata sinistra appaiono tracce di materia cerebrale, si scorgono capelli e sangue.

Il giudice e i poliziotti si precipitano al carcere minorile di Casal del Marmo dove è stato portato Giuseppe Pelosi. Non è difficile far parlare il ragazzo di borgata. Gli era accanto un avvocato. Il giudice chiede: «Questo anello è tuo?». Con quel suo «sì» Giuseppe Pelosi crolla. E man mano racconta la sua versione. Dice: «L'ho colpito ma non volevo ucciderlo e nemmeno schiacciarlo con la sua macchina». Il magistrato ha emesso, nel primo pomeriggio. un ordine di carcerazione per omicidio volontario pluriaggravato. Il processo si farà a porte chiuse perché l'imputato è minorenne.

Commenta Ninetto Davoli: «In una società così violenta la morte di Pier Paolo era prevista»। Chi è Giuseppe Pelosi? «Prima era un angelo, un pezzo di pane», dice la madre, «crescendo, però, si è rovinato». Rosa Paoletti in Pelosi aggiunge: «Ma non potevamo stargli dietro perché tutti e tre dobbiamo lavorare per campare. Lo vedevamo così poco...». Spiega Davoli a noi giornalisti: «Perché vi stupite, perché cercate di creare chissà quali storie dietro questa vicenda? A Roma si uccide per rabbia. Roma è violenta. Roma non conosce ancora il suo nuovo atroce volto».

Un delitto politico

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L'assassinio di Pier Paolo Pasolini è uno dei molti delitti rimasti impuniti e avvolti nel mistero che costellano la storia politica italiana. Le origini di tali oscuri e irrisolti fatti delittuosi risalgono alla stessa genesi della successione della democrazia rappresentativa al fascismo, e la loro intensificazione data a partire dalla strage di Piazza Fontana (1969).
Il delitto della notte tra l'1 e il 2 novembre, tra il giorno dei Santi e il giorno dei Morti del cruciale 1975 (l'anno del "terremoto elettorale"), si colloca al centro di quella seconda fase, che iniziata appunto con Piazza Fontana e con la "strategia della tensione", si concluderà virtualmente all'inizio del 1982 con la liberazione del generale americano Dozier rapito e tenuto prigioniero dalle Br, evento che di fatto pose fine agli "anni di piombo".
Pasolini è una delle personalità più emblematiche e positive della ricca cultura italiana della seconda metà del Secolo e si tratta di una emblematicità e di una positività che derivano dalle stesse sue contraddizioni Per valutarla mi pare opportuno prendere spunto dall'analisi critica espressa da una personalità rappresentativa del ceto politico dell'Italia di fine millennio quale è il deputato socialista Ugo Intini.
Intini contesta l'esaltazione di Pasolini in occasione del sedicesimo anniversario della sua morte apparsa sul "Corriere della Sera" (dove il poeta e regista aveva esordito in veste di commentatore politico e di costume), a firma di Giovanni Raboni, il quale di Pasolini aveva ricordato «l'invettiva contro il Palazzo della politica: una definizione e uno slogan destinati ad avere successo e a entrare nella retorica quotidiana».
Sotto il titolo "Una lezione artistica e non politica", Intini replica che «reso il giusto omaggio alle qualità artistiche e umane dello scrittore, a distanza di tanti anni ci si dovrebbe tuttavia attendere una riflessione critica... Pasolini non ha dato una lezione né politica né sociologica. Anzi ha rappresentato al massimo livello proprio l'impatto tra comunismo, cattolicesimo conservatore ed elitarismo aristocratico che ha reso anacronistica parte della cultura italiana, con conseguenze a tutt'oggi ben visibili» ("Avanti!", 5 novembre 1991). Intini sviluppa poi questo suo punto di partenza attraverso una analisi che contiene anche apprezzamenti per talune posizioni politiche di Pasolini («le critiche all'autoritarismo sovietico, la solidarietà manifestata verso i poliziotti aggrediti dagli studenti rivoluzionari del Movimento, la simpatia verso il vecchio Nenni, e il giudizio equilibrato sul centrosinistra»).
In Pasolini erano effettivamente presenti alcuni degli aspetti criticati da Intini. Ma l'insieme di queste contraddizioni faceva del regista-scrittore un simbolo di quanto si mobilitava nella società italiana in modo non anacronistico, bensì per aprire la strada a un ulteriore sviluppo democratico - una mobilitazione alla quale si oppose quanto di peggio esisteva nella società italiana, dal crimine organizzato al reazionarismo sanfedista. E, a mio avviso, proprio in quanto "simbolo" Pasolini venne colpito e ucciso.
Al dramma di questa contraddizione culturale collettiva (l'eterogeneità delle spinte ribelli contro il "Palazzo") se ne aggiungeva una più "personale". Prima di cercare di individuare altrui responsabilità, occorre comprendere come in certo modo Pasolini andò incontro alla morte e a "quella" morte, così come in altro modo vi andò incontro Foucault (altro critico della società detta del "capitalismo maturo", stroncato dall'Aids contratto nei gabinetti degli squallidi bistrot di Parigi, nel segno di una omosessualità per la quale mi sembra doloroso ma necessario il termine "degradata").
Per Pasolini e per Foucault, l'omosessualità non era infatti gioioso erotismo comportante affinità culturali e sentimentali e una sostanziale pariteticità tra i partner (ovviamente pur nella percezione della "diversità"). Si trattava invece di una omosessualità "mercenaria", che quasi si nascondeva a se stessa (pur essendo notoria) nel consumarsi alla periferia del sociale, tra "ragazzi di vita" che occorreva pagare per ottenerne le prestazioni.
Un uomo con la personalità e la sensibilità di Pasolini certamente avvertiva questa contraddizione (il dover "comperare" la propria "diversità"), contraddizione tanto più marcata da quando, iniziando, per idea di Piero Ottone, la collaborazione al "Corriere della Sera" su quei temi e in quel periodo, egli si presentava come una sorta di "coscienza morale" dell'Italia civile contro il corrotto potere democristiano (e non, genericamente, contro il "Palazzo della politica").
Quel tipo di omosessualità è certamente espressione di una storia personale che mi pare ancora difficile conoscere appieno. Come dato storico-culturale, si può anche pensare al prezzo che la cultura maschile occidentale, eIleno-romana e giudaico-cristiana, è quasi indotta a pagare per la repressione del femminile.
In sostanza mi pare si possa affermare che Pasolini andò incontro a quella morte quasi fosse disposto a pagare il prezzo di una contraddizione che viveva drammaticamente. E da questo punto si può partire per analizzare il delitto: da un lato la cautela della vittima, dall'altro una sorta di predestinazione.
La cautela di Pasolini è documentata negli atti processuali, e si era accentuata dopo una precedente aggressione con estorsione che aveva subito. Per spiegare quello che è accaduto, occorre partire dalla successione degli eventi. Emerge che la prima versione - quella di Ulderico Munzi sul "Corriere della Sera" (3 novembre 1975), presentata in base alle prime, sommarie notizie corrisponde quasi integralmente alla versione della Corte d'Appello circa un anno dopo (4 dicembre 1976): l'artista è stato «massacrato» di colpi da Pelosi che «ha poi schiacciato il suo corpo steso a terra con le ruote di una automobile»). È questa l'ultima convinzione giudiziaria sul fatto (la successiva sentenza della Corte di Cassazione è ovviamente limitata alla valutazione di diritto).
Alla versione iniziale pubblicata dal "Corriere della Sera" (Pasolini ucciso dal solo Pelosi), segue cronologicamente, a distanza di pochi giorni, quella di Oriana Fallaci e dell'inchiesta de "L'Europeo" (gli assassini erano più d'uno), basata su voci e testimonianze rivelatesi prive di consistenza; la sentenza di primo grado riprende questa interpretazione (pluralità di assassini) sulla base di una serie di indizi. Infine, la Corte d'Appello ripropone la prima versione contestando la validità di quegli stessi indizi.
Si può cogliere il significato di queste successive versioni collocandole nel clima socio-politico in cui si tennero le varie fasi del dibattito intorno all'omicidio। Pasolini viene ucciso quando trame e complotti sono all'ordine del giorno (vedremo come le interpreta lo scrittore), e sorgono subito sospetti circa il fatto che sia stato un ragazzo diciassettenne da solo a uccidere un uomo robusto e guardingo. La posizione pubblica di Pasolini fa sospettare un agguato, e subito compare qualche scritta - "Pasolini come Matteotti" - che si collega alle denunce della sinistra contro ipotizzate "trame nere".

Questo atteggiamento di sospetto dell'opinione pubblica di sinistra è alimentato da quelle che appaiono sensazionali rivelazioni di una prestigiosa giornalista. Ma lo stile vibrante di Oriana Fallaci e l'inchiesta de "L'Europeo" non reggono alla constatazione (documentata dagli articoli e dalle successive deposizioni qui raccolti) che tutta la costruzione si basa su voci incontrollabili, su testimoni inaffidabili, su supposizioni al limite del paranormale. Alcuni elementi - l'intervista "a inseguimento" a uno scombinato giovanotto, l'uomo che si presenta in redazione col passaporto pronto da esibire e che poi scompare - sono di tale inconsistenza da far supporre che solo la tentazione dello scoop, e quella di dare voce a una indignazione e a sospetti diffusi, possano avere indotto una autorevole professionista ad accreditare una tesi insostenibile. Lo scoop che diviene un boomerang blocca ogni altra possibilità di avviare inchieste giornalistiche, pure in un periodo nel quale, da Piazza Fontana in poi, esse erano di grande attualità ed efficacia, avendo contribuito a smascherare versioni ufficiali e di comodo in più di un occasione.
Molti anni dopo, incontrando Barth David Schwartz, autore della monumentale biografia Pasolini Requiem, pubblicata a New York dalla Pantheon nel dicembre 1991, Oriana Fallaci continua a sostenere: «Sono l'unica a sapere tutto, ma non fa niente». (1)
In realtà, i giudici di primo grado - pur deplorando le strumentalizzazioni politiche - ritennero che Pasolini fosse stato assassinato da più persone: «Il clamore che l'episodio ha avuto sulla stampa», afferma la sentenza, «le interpretazioni non sempre obiettive e documentate che sono state proposte, la prospettazione di versioni contrastanti non basate su una "lettura" delle risultanze ma solo sulla scelta aprioristica di una verità di comodo, il settario schierarsi pro o contro una tesi in funzione di preconcette opinioni politiche, tutto ciò ha certamente resa più confusa sin dal primo momento l'indagine, inquinando quella serena atmosfera di ricerca della verità che era indispensabile in un caso così delicato. E questo clima che ha favorito il sorgere di testimonianze fantasiose, di rivelazioni interessate, di auto o etero accuse sostanzialmente pubblicitarie, di ricostruzioni mitomani degli avvenimenti... Nessun serio contributo probatorio alla ricostruzione della verità può venire dalla "versione alternativa" proposta dal settimanale "L'Europeo", i cui giornalisti sono stati ascoltati come testimoni [che] non hanno ritenuto di poter rivelare le loro fonti di informazione, per cui il Tribunale non è assolutamente in grado di valutare direttamente l'attendibilità delle dichiarazioni».
Sono quindi giudici di primo grado in guardia contro interpretazioni fantasiose che concludono: «Ritiene il collegio che dagli atti emerga in modo imponente la prova che quella notte all'Idroscalo il Pelosi non era solo». Gli indizi figurano nella sentenza. Cruciale per l'argomentazione è la sproporzione tra i colpi e le ferite inferti a Pasolini e le escoriazioni di Pelosi: «In una colluttazione tra due soggetti», afferma il collegio, «a meno che uno non sia gravemente menomato sul piano fisico, è impossibile che uno solo dei contendenti riporti gravi ferite mentre l'altro esca praticamente indenne dalla lotta. Invece il Pasolini ha riportato rilevanti lesioni, mentre il Pelosi non ha subito significativi traumi. Eppure il Pasolini - come è notorio - non era un vecchio cadente incapace di organizzare una qualche difesa: era agile, aveva un fisico asciutto, praticava lo sport, giocava ancora a calcio in partite regolari».
La Corte d'Appello oltre a negare, come risulta dagli atti, la validità complessiva degli indizi relativi al concorso di più persone, contestò in particolare questo punto: «Attenta considerazione meritano soprattutto», si afferma, «la sproporzione tra le lesioni riportate da Pasolini e quelle riscontrate sull'imputato e la scarsità delle tracce di sangue di Pasolini sui vestiti di Pelosi... Che questi elementi possano spiegarsi con la partecipazione di più persone è indubbio. [Ma] la sproporzione delle lesioni subite dai due contendenti può trovare una spiegazione proprio ipotizzando che, invece di essere stato aggredito, sia stato Pelosi ad aggredire Pasolini, cogliendolo di sorpresa e menomandone sin dall'inizio la capacità di difesa. Questa supposizione non è affatto contraddetta, come invece si prospetta nella sentenza impugnata, dall'agilità e robustezza fisica di Pasolini, che peraltro era di complessione fisica assai minuta (59 kg di peso e 1.67 m di altezza), poiché Pelosi poté valersi non soltanto della maggiore vigoria della giovane età, ma verosimilmente di una determinazione a offendere che in Pasolini mancò e con tutta probabilità lo portò a colpire duramente per primo e d'improvviso... La corte deve attribuire mero valore congetturale all'induzione che la sentenza impugnata volle trarre dalla precisione e violenza del calcio ai testicoli, che sarebbe stato inferto da uno dei complici mentre Pasolini veniva tenuto da altri... non potendosi escludere che Pelosi sia riuscito a colpire Pasolini al basso ventre quando l'altro non se l'aspettava». La corte conclude quindi «di ritenere estremamente improbabile, per tutte le cose dette, che Pelosi possa avere avuto uno o più complici»; ma insiste sul fatto che la sua versione è del tutto inattendibile, che Pelosi intendeva uccidere senza aver subito alcuna violenza e dopo aver accettate preventivamente tutte le prestazioni sessuali che gli potevano essere richieste. Il suo dunque è un omicidio doloso e senza attenuanti, per cui il corpo schiacciato con l'automobile è l'ultimo atto di una serie di iniziative volte a uccidere.
Pasolini "massacrato" da un Pelosi indenne, dunque; è questa la spiegazione alternativa: o più persone contro l'artista, oppure l'assassino che lo aggredisce di sorpresa. "Tertium non datur", come si direbbe con una espressione latina spesso usata. Ma, nell'uno o nell'altro caso, quali le ragioni del feroce massacro?
Neanche la sentenza di primo grado le può indicare, quando conclude: «La mancanza di un preciso accertamento della causale del delitto non può portare alla esclusione della responsabilità... In realtà possono farsi varie ipotesi: che si volesse rapinare Pasolini, che gli si volesse dare una lezione per un precedente "sgarbo", che si volesse proteggere il Pelosi alle prime esperienze e che un protettore vigilasse su di lui. Non esistono elementi - di fronte al mutismo sul punto del Pelosi, sempre ancorato alla sua versione difensiva originaria - che possano far preferire una delle causali sopra riportate o anche una causale diversa, allo stato non facilmente ipotizzabile».
Se il Tribunale non può spiegare perché più persone avrebbero massacrato Pasolini, la Corte d'Appello non può spiegare perché lo abbia fatto il solo Pelosi, in una sequenza logica così presentata nelle conclusioni:
«Vi dovette essere fra loro una colluttazione durante la quale Pelosi riuscì ad afferrare Pasolini per i capelli (la ciocca fu ritrovata a otto metri dal cadavere) e a raggiungerlo con violenza ai testicoli. Subito dopo, mentre Pasolini era incapace di difendersi, lo colpì alla testa [...] fino a quando Pasolini, che si trovava già in ginocchio, cadde a terra anche col tronco, rantolando. Nello stesso tempo, si deve affermare che dal racconto dell'imputato non appare verosimile che Pasolini abbia posto in essere un tentativo di violenza carnale o altra immotivata aggressione fisica... L'azione finale si collegò, nella sua fredda determinazione, a quella precedente, quando Pasolini ormai in balia del suo aggressore fu colpito ripetutamente, senz'altro scopo che quello omicida, alla testa e alla nuca. Allo stesso modo Pelosi, salito sull'automobile, non soltanto non si curò di evitare il corpo giacente a terra, ma si diresse decisamente su di esso e non cambiò direzione che quando l'ebbe schiacciato con le ruote... La certezza che egli ha perpetrato un omicidio volontario senza trovarsi in stato di legittima difesa si rafforza. Ritiene cioè la corte che i lati oscuri che rimangono nella vicenda - ivi compresa la marginale incertezza intorno all'ipotesi che Pelosi abbia potuto non essere solo - non tolgono nulla alle certezze acquisite intorno alla natura dolosa del ferimento e del successivo investimento di Pasolini da parte dell'imputato. Si deve infine rilevare che questo giudizio non è minimamente ostacolato dal mancato appuramento dei motivi del delitto... L'impossibilità di identificare la causale del reato non pregiudica il giudizio di colpevolezza».
Dunque entrambe le sentenze concordano sui punti oscuri e sulla impossibilità di stabilire le ragioni di un delitto compiuto con tanta ferocia. La contrapposizione delle conclusioni (uno, oppure più assassini) non può stupire, se si pensa che i processi indiziari di un drammatico quindicennio di storia italiana (da Piazza Fontana, 1969; alla strage di Natale, 1984) si concludono con sentenze che, in gradi diversi. variano addirittura dalla comminazione dell'ergastolo all'assoluzione, appunto per la difficoltà di trasformare in prove certe indizi labili.
Acclarato dunque l'impegno col quale i magistrati dei due gradi (e poi quelli della Cassazione) hanno lavorato per giungere il più vicino possibile alla verità, per tentare di spiegare quanto sta dietro l'omicidio sul lungomare di Ostia, occorre ampliare l'ambito della analisi: da quello giudiziario al contesto politico, che entrambe le sentenze lasciano sullo sfondo (salvo i riferimenti dei giudici di primo grado). Del resto anche "L'Europeo" esclude il "delitto politico" e trova "delirante" l'analogia con Matteotti.
Va premesso che dai fatti descritti emerge che Pelosi (coi complici del suo ambiente, se ne ha avuti) non solo non aveva ragioni per uccidere Pasolini, ma ne aveva molte per non farlo. L'artista era una fonte costante di reddito facile (per il suo oscuro bisogno di cui si è detto all'inizio). Era una conoscenza importante e forse da utilizzare: come risulta dagli atti, Pelosi e i suoi amici gli chiedevano scherzosamente se avrebbero potuto avere qualche parte in un film... Perché distruggere una fonte di reddito e prospettive di ulteriori vantaggi quando Pelosi, ladro d'auto e uso a ogni tipo di prestazioni sessuali, poteva incassare ventimila lire senza fatica alcuna?
Va aggiunto che Pelosi, come risultato dalle perizie e dal comportamento, è un ragazzo rozzo ma scaltro, che per oltre un anno - dal momento dell'omicidio alla sentenza d'appello - non cede di un millimetro dalla sua inattendibile versione; la Corte d'Appello parla della «accortezza con la quale in dibattimento l'imputato ha cercato di attenuare, con parziali abili modificazioni, la portata di precedenti ammissioni», sgusciando abilmente tra reticenze, bugie e contraddizioni.
Va infine rilevato (è la parte utile dell'inchiesta de "L'Europeo") che Pelosi sin dall'inizio cambia avvocato, scegliendo quello che ha difeso i giovani di destra autori di un altro atroce delitto al Circeo (una ragazza massacrata, un'altra gravemente ferita).
Se Pelosi e gli amici del suo ambiente avevano dunque l'interesse a un Pasolini vivo; se non poteva sfuggire il rischio che si correva uccidendo un uomo di grande notorietà a difesa della cui memoria metà del Paese avrebbe chiesto una punizione esemplare per un assassinio tanto feroce, che cosa poteva indurre un incolto ragazzo diciassettenne a comportarsi come si è comportato, prima e dopo il delitto - sino a vantarsi, appena giunto in carcere come colpevole di un semplice furto d'auto, di aver ucciso Pasolini, e arrivando a mimare le sequenze del delitto per il fotografo di un settimanale?
Vi è una sola situazione che può dare una risposta coerente e convincente a tutte queste domande: Pelosi è stato contattato per attirare Pasolini in un agguato: ha avuto una grossa ricompensa per farlo; gli è stato garantito che sarebbe stato adeguatamente protetto e tutelato. Di fatto, minorenne e nonostante la ferocia del comportamento, è uscito dal carcere dopo pochi anni, per riprendere la vita di prima, tra furti e detenzioni, dopo aver presumibilmente sperperato quanto riscosso per il suo operato da killer. Tale è infatti la sola spiegazione possibile di quanto ipotizzato nella sentenza della Corte d'appello: un colpo a sorpresa (ma con la difficoltà di spiegare il contemporaneo strappo della ciocca di capelli), seguito da una gragnuola di colpi e dal colpo di grazia con le ruote dell'auto.
Se si parte dall'ipotesi che Pasolini, nonostante la sua cautela, abbia potuto essere attirato in un agguato, si riduce l'importanza della presenza attiva di più persone. Qualcuno poteva essere sul luogo per aiutare Pelosi (tesi del Tribunale), oppure questi ha agito fulmineamente da solo (tesi della Corte d'Appello), magari controllato sul posto da qualcuno non attivo ma pronto a intervenire in caso di necessità.
Questa ipotesi richiede una spiegazione su chi e perché abbia contattato Pelosi a quello scopo. Sul "chi" non occorre affaticare la fantasia: le cronache di quegli anni sono gremite di poteri occulti, di servizi deviati, del crimine organizzato che fornisce strutture e operatori per azioni di finta destabilizzazione e di autentica stabilizzazione politica. Non vi è che l'imbarazzo della scelta. Pelosi è stato uno strumento. Ora può continuare la sua vita di emarginato senza gloria, perché, se volesse raccontare qualcosa, sa quel che gli costerebbe e che nessuno gli crederebbe.
Quale era l'obiettivo dell'agguato? Personalmente ritengo probabile una delle "causali" suggerite dal Tribunale: si voleva "dare una lezione" a Pasolini, ma non per uno "sgarbo", bensì per quello che egli rappresentava nel momento politico, così come, un paio d'anni prima per la stessa ragione, si era voluta dare una "lezione" all'attrice Franca Rame।.

Pasolini, si è detto, viveva una contraddizione angosciosa. Non perché fosse omosessuale, ma perché si avvaleva del suo denaro e del suo prestigio per ottenere prestazioni sessuali: una posizione tanto più difficile, quanto più egli era divenuto espressione della "coscienza pubblica", di quegli stessi settori di opinione i quali contestavano il sistema di potere soprattutto della Dc, partito che egli proponeva addirittura di sottoporre a una sorta di Processo palingenetico.
Pasolini aveva perfettamente capito il processo di apparente destabilizzazione in atto e del quale sarebbe rimasto vittima. Stava per recarsi al congresso del Partito radicale, dove avrebbe probabilmente proseguito la riflessione della quale sono passaggi cruciali l'articolo sul "Corriere della Sera" del 14 novembre 1974 e l'intervista a Massimo Fini, proprio su "L'Europeo" (coincidenza significativa), del 26 dicembre successivo.
L'articolo sul "Corriere" è ampiamente riportato nell'arringa dell'avv. Guido Calvi, qui riproposta. L'intervista a "L'Europeo" parte dalle stragi definite "fasciste" e con un accenno a Matteotti che suggerisce un'altra coincidenza (aldilà del citato "Pasolini come Matteotti"): anche al leader socialista si voleva "dare una lezione" (espressione usata da Mussolini) che si trasformò in un omicidio per cause e con un retroscena ancora non chiariti.
Pasolini dichiarava a Fini nel Natale del 1974, il suo ultimo Natale: «C'era stato il delitto Matteotti, certo, ci sono state altre vittime da tutte e due le parti, ma la prepotenza, la violenza, la cattiveria, la disumanità, la glaciale freddezza dei delitti compiuti dal 12 dicembre 1969 in poi non s'era mai vista in Italia. Ecco perché c'è in giro un maggior odio. Soltanto che quest'odio si dirige, in certi casi in buonafede e in altri in perfetta malafede, sul bersaglio sbagliato, sui fascisti archeologici invece che sul potere reale. Prendiamo le piste nere. lo ho un'idea, magari un po' romanzesca, ma credo giusta, della cosa. Il romanzo è questo. Gli uomini di potere, e potrei addirittura fare nomi senza paura di sbagliarmi - comunque alcuni degli uomini che ci governano da trent'anni -hanno prima gestito la strategia della tensione a carattere anticomunista, poi, passata la preoccupazione dell'eversione del '68 e del pericolo comunista immediato, le stesse identiche persone hanno gestito la strategia della tensione antifascista».
Pasolini precorreva così una interpretazione che oggi ha trovato sostanziale conferma, con l'ulteriore sviluppo della successiva evoluzione degli "anni di piombo", di nuovo in chiave anticomunista contro il pericolo dell'accesso del Pci al governo. Dalla sua convinzione circa la responsabilità della Dc derivava la proposta di un Processo. Ma la Dc temeva non un processo, bensì il rischio elettorale rappresentato da un Pci col 33 per cento dei voti e un Psi al 12, più l'1 per cento della "nuova sinistra": un totale del 46 contro il 35 dello scudo crociato.
Occorre citare qualche testo per capire la situazione dell'ottobre 1975, l'ultimo mese di vita di Pasolini. Il 28 agosto 1975 "Il Mondo" pubblica una sua lettera al "Caro Ghirelli" col titolo "Bisognerebbe processare i gerarchi Dc", nella quale alla fine afferma:

«In conclusione, il Psi e il Pci dovrebbero per prima cosa giungere ad un processo degli esponenti democristiani che hanno governato in questi trent'anni (specialmente gli ultimi dieci) l'Italia. Parlo proprio di un processo penale, dentro un tribunale. Andreotti, Fanfani, Rumor, e almeno una dozzina di altri potenti democristiani, dovrebbero essere trascinati, come Nixon, sul banco degli imputati. E quivi accusati di una quantità straordinaria di reati, che io denuncio solo moralmente... Senza un simile processo penale, è inutile sperare che ci sia qualcosa da fare per il nostro Paese. È chiaro infatti che la rispettabilità di alcuni democristiani (Moro, Zaccagnini), o la moralità dei comunisti, non servono a nulla».
Colpiscono le coincidenze del riferimento al processo penale (lo si farà per il suo omicidio) e a Aldo Moro (che rimarrà vittima della finta destabilizzazione). Col titolo "Il Processo" questa tematica verrà ripresa sul "Corriere della Sera" (24 agosto 1975), con le successive "Risposte" (9 settembre 1975) alle critiche di Leo Valiani e di Luigi Firpo. "La sua intervista conferma che ci vuole il processo" è infine una lettera al presidente Leone ("Il Mondo", 11 settembre 1975) che così conclude: «E solo attraverso il processo dei responsabili che l'Italia può fare il processo a se stessa e riconoscersi».
Fu a questo punto che scrissi su "Panorama" una "Opinione"
(25 settembre 1975) dal titolo "Non occorre un Processo". Pasolini rispose su "Il Mondo" il 16 ottobre 1975 uno dei suoi ultimi scritti, due settimane prima dell'assassinio. Scrisse di
«Silenzio da parte di tutti coloro che potrebbero parlare. Giorgio Galli che, di serio, non si limita ad avere il doppiopetto, si fa portavoce di quel silenzio, dicendomi, civilmente, che il processo sarebbe inutile. Ma il processo a Nixon è stato utile o inutile? D'altra parte, nell'ipotesi, del resto utopistica, che tutti i processi "fermi" fossero portati a termine da una magistratura indipendente e al di sopra del potere politico, si giungerebbe fatalmente al Processo di cui parlo io».
Conclusione: si voleva "dare una lezione" all'uomo che voleva processare la Dc. E gliela si voleva dare in una situazione tale (mentre pagava ragazzini per sodomizzarli) che avrebbe offuscato la sua figura di scrittore-moralista. Ritengo che non vi fosse il proposito di ucciderlo, anche per la preoccupazione delle reazioni di una pubblica opinione spostata a sinistra. In ogni caso venne preparato un agguato, che si concluse con un assassinio. Si noti la coincidenza tra la frase di Pasolini sulla "glaciale freddezza" delle stragi di Piazza Fontana, Brescia, Bologna, e la "fredda determinazione" di cui parla la Corte d'Appello nel descrivere Pelosi che passa con l'auto sul corpo della vittima.
Sembra di cogliere una sorta di preveggenza in Pasolini, in quel suo insistere in pratiche che lo rendevano vulnerabile, nonostante la cautela. E ricca di coincidenze è la polemica con Carlo Casalegno, che lo criticava su "La Stampa".
In un "frammento" inedito, presumibilmente datato novembre 1974 (sarebbe morto un anno dopo nello stesso mese), Pasolini scriveva: «In tutta la mia vita non ho mai esercitato un atto di violenza né fisica né morale. C'è una sola eccezione. Si tratta di una decina d'anni fa. Per strada - era verso sera - un gruppo di fascisti mi ha aggredito. C'erano con me dei giovani compagni: ed è stata soprattutto la violenza usata contro di loro che mi ha esasperato. Abbiamo risposto con altrettanta violenza ed essi hanno battuto in ritirata. Io ho cominciato ad inseguire il più scalmanato».
Pasolini descrive questa «corsa forsennata» che si conclude quando il giovane «si dilegua». Pasolini furente che insegue un giovane: è la descrizione che Pelosi fa della notte di Ostia - una descrizione falsa che ricorda una situazione vera. Pasolini conclude:
«L'indignazione suscitata in me da quel miserabile fascista dieci anni fa, non è nulla in confronto all'indignazione che ha suscitato in me, in questi giorni, un articolo di un sedicente antifascista: il vice-direttore de "La Stampa", Carlo Casalegno»
(ora in Scritti corsari).
Sullo stesso tema, scrive su "Panorama":
«Quanto all'affermazione di Casalegno su una mia "nostalgia di un passato anche tinto di nero", sia ben chiaro: se egli osa ripetere qualcosa di simile, salgo a Torino e passo a vie di fatto».
Lo scritto, che preannunzia, sia pure in forma forse ironica, una violenza, comunque almeno verbalmente una sorta di seconda "eccezione", porta la data del 7 novembre (sempre il mese della morte, un anno dopo). In un altro novembre, tre anni dopo, Casalegno sarà colpito a morte dalle Brigate rosse (ferito il 16, si spegnerà il 29). È la violenza della finta destabilizzazione, del "romanzo" anticipato da Pasolini. Sono delle coincidenze che concludono il dramma del litorale di Ostia.

Il ricordo di Pasolini è ancora forte. All'inizio del 1992, commentando il peraltro inutile atto d'accusa del Pds contro il presidente Francesco Cossiga, Ruggero Puletti vi vede «una sorta di prefigurazione di un "processo" pasoliniano al Palazzo» ("Avanti!", 3 gennaio 1992). Ma intanto, sotto il titolo "Giù le mani da Pier Paolo", Giampiero Mughini segnala, nell'anniversario della morte, che «dagli ex comunisti ai giovani missini, tutti rivendicano l'eredità politica del poeta... Ecco "l'Unità" fare omaggio dei suoi scritti saggistici. "Il Sabato" non perde occasione per esaltare l'eredità morale del poeta... Per non dire dei giovani missini di "Fare Fronte" che hanno organizzato un dibattito all'Università di Roma dove Pasolini sarà celebrato assieme a Ernst Junger e a Augusto Del Noce» ("Panorama", 17 novembre 1992); la segnalazione si conclude col ricordo di quello che qui ho presentato come un dramma e che sembra un fatto marginale: «Dario Bellezza era stato tra i primi, in un suo pregevole libretto del 1980, a sostenere che il tragico destino di Pasolini, la terribile notte del 2 novembre 1975, s'era compiuto sul terreno della ricerca del piacere, e non su quello di un eventuale complotto. "Ho sempre pensato che dietro la polemica di Pier Paolo contro la modernizzazione vi fosse innanzitutto un suo trauma personale, privato. Si erano fatti difficili i suoi rapporti sessuali con i ragazzi di vita, perché questi ragazzi non erano più freschi e ingenui come al tempo della sua giovinezza. Dacia Maraini lo rimproverava di questo, che si lamentasse del fatto che questi ragazzi volessero essere pagati e non gli bastassero i soldi della pizza. 'Sanno che tu sei un regista famoso e dunque ti chiedono i soldi. Come puoi pensare che vogliano tornare indietro e contentarsi di quello che avevano una volta?', gli diceva Dacia. E Pier Paolo si infuriava"».
Che si possa considerare "piacere" quello ricavabile da un ragazzo come Pelosi, è di per sé un dramma, ed è questo che rende possibile il "complotto"; un dramma che si manifesta nel fatto che Pasolini, che pure tenta di capire anche i fascisti e che oggi i giovani missini rivalutano ai propri occhi, vede solo in termini di "giornate di Sodoma" il dramma di altri giovani, volontari nell'esercito della Repubblica sociale di Mussolini. Invece giustificava i partigiani comunisti che pure gli avevano ucciso l'amato fratello, anch'egli partigiano, ma non comunista.
L'intreccio di contraddizioni psicologiche e cultural-politiche che certamente caratterizzò Pasolini è così una ragione ulteriore per apprezzarne la vita e per capirne la morte.
Anche se, come si è detto, stava per recarsi al congresso del Partito radicale, non ne condivideva l'iniziativa di raccogliere le firme per un referendum che depenalizzasse l'aborto. Sul diritto alla vita del concepito la sua posizione era quella cattolica. Ma dalla tribuna del congresso avrebbe chiesto forse con ancora maggior vigore di processare la Dc per il malgoverno e per le stragi. La sua esortazione avrebbe avuto ulteriore eco sul maggior quotidiano italiano e sulla stampa nel suo insieme. Glielo si volle impedire: probabilmente senza ucciderlo, ma in circostanze tali che ne avrebbero compromessa la figura morale. E' una ipotesi del tutto verosimile, ci sono gli indizi, ma mancano le prove, così come era accaduto per le stragi che avevano insaguinato l'Italia, che egli denunciava, e per quelle che ancora sarebbero seguite, dopo la sua morte, sino a destabilizzazione conseguita. Il suo assassino è libero, così come liberi sono gli autori senza nome e senza volto delle stragi. Così il cerchio logico e quello simbolico si chiudono contemporaneamente sulle vittime alle quali non è stata resa giustizia.

A molti anni di distanza, all'inizio del decennio di fine Secolo, nessuno ha osato dire che si trattava di una morte necessaria, come è stato detto di altre analoghe, per conseguire la grande vittoria del "mondo libero" sul comunismo. Lo si è invece ricordato con rispetto, anche da parte dei suoi avversari più accaniti. Una prova ulteriore dell'omologazione che egli deplorava.
Forse, tuttavia, anche il segno di una rinnovata e non effimera attenzione. Il quotidiano che ha ospitato gli scritti coraggiosi che gli sono costati la vita dedica oggi a Pasolini intere pagine, e ancora Giovanni Raboni scrive:
«Non è facile, non sarà mai facile sbarazzarsi di Pasolini... allontanandolo nell'immagine gloriosa e inoffensiva del grande poeta o scrittore o cineasta, le cui idee o prese di posizione in campo morale e politico, "giuste" o "sbagliate" che fossero, non contavano e - soprattutto - non contano, non ci interessano, non ci riguardano più... La grandezza di Pasolini... non è soltanto inseparabile dall'acutezza, dall'audacia, dalla vitale e "scandalosa" inquietudine delle sue idee, ma consiste, alla lettera, in esse, e questo spiega perché [non sia] entrato in questa sorta di limbo... Questo destino che non ha risparmiato, credo, nessuno dei protagonisti dalla cultura del dopoguerra, da Sartre a Barthes, non ha nemmeno sfiorato Pasolini» ("Corriere della Sera", 12 gennaio 1992).
E a sua volta "Panorama". che pure lo aveva ospitato, sottolinea
il ruolo di Pasolini quale critico anticipatore della crisi del nostro sistema politico, intitolando il servizio "Il gran picconatore" e citando Giuliano Ferrara che «coglie l'occasione di una delle sue apologie delle esternazioni di Francesco Cossiga, per sostenere che Pier Paolo Pasolini avrebbe picconato gli stessi bersagli, se fosse ancora vivo... A Pasolini ieri erano riservati i roghi, oggi gli osanna... Uomo di tutti i dolori, di tutte le contraddizioni, da cui germinò la sua altissima poesia. Altro che imbalsamazioni ove Pasolini serve a tutto e a tutti. Altro che gara a non potersi non dire pasoliniani» (19 gennaio 1992).
Oggi. E ieri, dopo l'assassinio, l'essenza della sua lezione giungeva persino a un periodico femminile di intrattenimento quale "Brava!", che riportava La ballata delle madri (suggerendo di leggere Poesia in forma di rosa) con questo commento di Rudy Stauder: «Nei giorni della tragedia e delle lacrime ripresi in mano il libro. Ritrovai intatti gli insegnamenti di vita di Pasolini: il rifiuto del compromesso, l'amore per le grandi virtù, il coraggio di essere coerenti, di essere se stessi, anche se diversi dal prototipo sociale. Questo suo coraggio, questa coerenza, Pasolini li ha pagati con la vita».
Coerenza pagata con la vita. Coerenza pur contraddittoria, perché amando la madre e non intendendo le donne, presentava come "servili" e "feroci" le donne-madri, tante volte ribelli e tante volte sconfitte, dalle maghe e baccanti, come la sua Medea con la Callas, alle gnostiche, alle streghe. Ma comunque coerenza e rifiuto del compromesso. E che queste fossero le vere ragioni del delitto era evidente mentre era appena stato compiuto per fermare, in un momento cruciale, una lezione che - come ricorda Raboni - sarebbe sopravvissuta al tempo.
Delitto, dunque, sostanzialmente politico, anche se non voluto sino alle estreme conseguenze. Delitto che non si spiega se non nel clima politico dell'autunno 1975. La Dc era stata sconfitta due volte, nel 1974 (referendum sul divorzio) e pochi mesi prima, nelle elezioni del 15 giugno. Si sentiva "assediata", come ebbe a scrivere uno dei suoi leader, già segretario e poi presidente del partito, Flaminio Piccoli.
Il primo maggio i vietnamiti di Ho Chi Minh conquistavano Saigon, gli americani sgomberavano il Vietnam, si sentivano dirigenti democristiani paragonare alle "macchie di leopardo" (la zona dove si era insediata la guerriglia in Vietnam) le nuove amministrazioni di sinistra che si insediavano un po' ovunque in Italia, accerchiando il potere della Dc.
In questo clima matura la decisione di dare un colpo d'avvertimento, di tacitare, con l'agguato e col discredito, la voce di chi chiedeva di processare la Dc dalle colonne del maggior quotidiano italiano. Oggi questo clima è remotissimo. Anche allora la Dc non correva reali pericoli, perché la sinistra, preoccupata e incerta, non intendeva percorrere le possibili strade di cui si parlava nel mio commento alla questione del "Processo". Ma poiché la Dc appariva assediata si volle aprire una breccia nell'assedio facendo tacere una delle voci più forti dei supposti assedianti.
Appunto perché oggi questo clima è lontano, perché il sistema mondiale comunista è crollato, il Pci si è scisso, vi è chi sostiene che sia stata positiva la permanenza al governo della Dc, che l'italia ha evitato così rischi peggiori; ma anche allora persino "L'Europeo" escludeva che si trattasse di un "delitto politico". Invece di questo precisamente si è trattato. Il poeta lo ha reso possibile con una abitudine di vita che si è tradotta in una sorta di vocazione al sacrificio. Ma altri (e come si è detto non vi è che l'imbarazzo della scelta, tra servizi deviati e malavita organizzata, che due anni dopo avrebbero svolto un ruolo tuttora non chiarito nel sequestro e nell'omicidio di Aldo Moro) hanno sfruttato quell'abitudine e quella vocazione per predisporre un agguato poi risultato mortale, probabilmente al di là delle intenzioni.
Gli ampi estratti degli atti istruttori e processuali qui pubblicati forniscono tutti gli elementi utili a corroborare questa tesi। Essi completano la biografia di Pier Paolo Pasolini, e sono una ulteriore spiegazione del perché il suo messaggio permane.

Pelosi e il fantasma di Pasolini.

Se Pasolini avesse voluto architettare una vendetta postuma non avrebbe potuto inventare niente di più inquietante e romanzesco: il suo assassino, da ragazzo indifferente, svogliato, semianalfabeta, violento, bugiardo, apatico ed egoista, si è trasformato, attraverso la famigliarità col fantasma della sua vittima, come lui stesso racconta, in un giovane uomo inquieto, pensoso, capace di soffrire e quindi anche di capire ciò che prima gli era estraneo, voglioso di apprendere e perfino di scrivere. L'assassino Pino Pelosi è diventato, per osmosi col ricordo assillante del mite poeta Pasolini, anche lui scrittore e poeta. Non è stupefacente?
Pino Pelosi, detto "la rana", si è buttato fin da bambino nel furto e nella rapina. L'inquietudine, la povertà, la cattiva educazione, certamente lo hanno spinto su quella strada. Nella sua vita randagia era prevista anche qualche piccola concessione sessuale in cambio di soldi. Eppure Pelosi insiste che non è mai stato una "marchetta". "Tutto quell'inferno per un pompino da ventimila lire" dice a pagina 45. E anche noi ci stupiamo. Ma l'inferno l'ha fatto lui.
Dobbiamo ringraziare Pino Pelosi per averci regalato, con questo libro, un ritratto molto veritiero di se stesso. La scrittura, come si sa, non riesce a mentire e la verità, per lo meno quella psicologica, trapela da ogni rigo.
Quando Pelosi dice che Pasolini, nel momento della schermaglia, è diventato un altro, "una bestia irriconoscibile", in realtà parla di se stesso. Come apprendiamo andando avanti nella lettura. Non è proprio lui che in certe situazioni si trasforma in maniera sorprendente diventando feroce e cieco, finendo per brutalizzare proprio le persone che gli stannoa cuore? Non ha fatto così con il suo compagno di cella solo perché lo guardava male? Non ha fatto così con la sua amata Maria Pia perché sospettava di non essere più amato? L'ha presa a calci e a pugni. Per pentirsi subito dopo e scrivere "non so come ho potuto farlo, non lo so e basta".
Non stentiamo a credere che la stessa cosa sia successa con Pasolini, il quale, probabilmente, senza volerlo, lo aveva ferito (a parole) nel suo rozzo orgoglio maschile.
Più volte Pelosi dice "non volevo ammazzarlo". Così come dice della sua ragazza "non volevo picchiarla". Ma l'ha fatto. Sembra che in certi momenti una forza più grande di lui si impossessi del suo corpo e lo spinga verso la brutale cancellazione dell'altro. Atto di cui poi si pentirà, continuando ad insistere che lui non è così, che quell'agire non appartiene alla sua natura.
Pelosi dice che Pasolini era conosciuto per il suo masochismo. Anche noi amici lo sapevamo. Pasolini non avrebbe mai fatto del male a nessuno, mai avrebbe minacciato e violentato. Lui semmai cercava qualcuno che, in un gioco erotico, lo malmenasse un poco. Era questo il suo segreto. Di solito i ragazzi a cui si accompagnava sapevano che era un gioco e stavano alle regole di quel gioco.
Ma Pino Pelosi ha un carattere poco giocoso, non conosce l'intuizione, è privo di pazienza, non sa cos'è la tolleranza ed ha uno scarso senso delle proporzioni. Lui, di fronte ad una schermaglia amorosa, che del resto aveva accettato per denaro, (ma che cos'è questo se non "fare marchette"?) si è sentito ferito nella sua idea di virilità ed ha reagito nel suo modo cieco e furioso. E non dica che non si è accorto di averlo messo sotto le ruote della macchina il corpo di Pasolini. Se ha avuto tanta prontezza da guidare la macchina in piena notte, dobbiamo pensare che avesse anche la sensibilità per accorgersi che gli stava montando sopra. D'altronde un corpo umano non è un tappeto.
Escludo, conoscendolo, che Pasolinilo abbia minacciato o abbia voluto penetrarlo con un bastone. È probabile invece che abbia riso su quel falso pudore del ragazzo per provocare in lui una reazione e suscitare quella lotta giocosa che era la sua preferita. Proprio per farsi picchiare, come scrive con molta sincerità nel suo ultimo romanzo, Petrolio। Non certo per farsi ammazzare.

Interrogatorio
dell'imputato Pino Pelosi
2 novembre 1975

«Mi trovavo con gli amici Salvatore, Claudio e Adolfo detto "Lo Sburacchione" perché ha il viso pieno di forungoli, di cui non conosco i cognomi e che però sono in grado di rintracciare, alla Stazione Termini verso le ore 22; ci si è avvicinato un signore con gli occhiali sui 35-50 anni, col volto magro, di media statura, a bordo di un'autovettura. Il signore era a bordo dell'auto "Alfa Romeo GT" sulla quale sono stato poi trovato e arrestato questa mattina.
Sceso dall'auto venne incontro a un mio amico. In particolare quel signore ha parlato con l'amico Adolfo e ho sentito che gli diceva: "Ci facciamo un giro". Il mio amico rideva e io ho capito che quel signore era un "frocio". lo mi sono allontanato e sono andato al chiosco-bar di piazza dei Cinquecento all'angolo con piazza Esedra. Dopo pochi minuti quel signore è arrivato in macchina davanti al bar, è sceso dall'auto e mi è venuto incontro. Io mi trovavo sulla porta. Ha fatto anche a me la proposta di fare un giro in macchina dicendo che mi avrebbe fatto un bel regalo. Non mi ha fatto proposte concrete anche se io avevo più o meno capito che cosa volesse da me. Mi ha portato in una trattoria vicino alla Basilica di San Paolo, e precisamente sul raccordo che conduce sul viale Marconi e sullo svincolo per Ostia Lido. Mi ha detto che era un cliente della trattoria, infatti lì lo salutavano tutti. La trattoria era deserta ma il personale proprio perché era cliente (...) di questo signore che diceva di chiamarsi Paolo. Io ho mangiato perché avevo fame, lui ha soltanto bevuto una birra. Nell'osteria non mi ha fatto proposte, ma mi ha parlato amichevolmente, ha voluto sapere del mio lavoro. Siamo stati insieme dalle ore 23 alle 23.20 nella trattoria, poi siamo risaliti in macchina. Il signore ha fatto benzina presso un Selv Serv (sic!) e poi ha preso una strada, anzi precisamente l'Ostiense, e cioè quella alberata e con reticolati.
Strada facendo mi ha detto che mi avrebbe portato in un campetto isolato, che mi avrebbe fatto qualcosa e che mi avrebbe dato lire 20.000. Nel dire questo mi toccava le gambe e poi giungeva ad accarezzarmi i genitali. Mi ha portato direttamente, come se conoscesse perfettamente i posti, al campo sportivo.»

A questo punto il dottor Masone precisa che il luogo del delitto è costituito da una radura adiacente al campo sportivo dove figura anche una porta e che era attrezzata rudimentalmente per il gioco del calcio. Dentro questa porta è stato rinvenuto un maglione intriso di sangue e una tavola recante l'indicazione "via dell'Idroscalo n° 93" spezzata in due tronconi in senso longitudinale e macchiata di sangue. Il corpo del Pasolini è stato trovato a 100- 150 metri dalla anzidetta sul viottolo in terra battuta che conduce al campetto di fortuna partendo dalla strada asfaltata.

L'imputato dichiara: «Il luogo è quello descritto, e preciserò meglio quello che ivi è accaduto. Ricordo infatti che il Paolo lasciò la strada asfaltata e si addentrò in un viottolo a terra battuta, e si fermato con l'auto vicino alla porta da calcio. Ricordo che in vicinanza c'erano delle baracche in muratura. Inizialmente, in macchina, il Paolo mi ha preso il pene in bocca per un minuto circa ma non ha completato il "bocchino", dicendo di uscire fuori dall'auto. Mi ha fatto poggiare a una rete metallica di recinzione e mi è venuto dietro premendosi a me da dietro e cercando di abbassarmi i pantaloni. Io gli ho detto che la smettesse e lui invece ha raccolto un paletto del tipo di quelli che recingono i giardini e voleva infilarmelo nel sedere, o perlomeno me lo ha appoggiato contro il sedere senza nemmeno abbassarmi i pantaloni. Io ho afferrato un pezzo di legno, mi sono girato e gli ho detto: "Ma che ti sei impazzito". Il Paolo si era tolto gli occhiali che aveva lasciato in macchina, e nel vederlo in viso mi è sembrato con una faccia da matto tanto che ne ho avuto proprio paura. lo sono scappato in direzione della strada asfaltata sul terreno fangoso mentre il Paolo mi inseguiva. Siccome portavo ai piedi le stesse scarpe con i tacchi alti che ho in questo momento, ho inciampato e sono caduto. A questo punto mi sono sentito addosso il Paolo che si agitava alle mie spalle, io ho capito che voleva ricominciare e mi sono rigirato divincolandomi, e allora il Paolo mi ha colpito alla testa col bastone proprio nel punto dove ho il cerotto e dove mi è stato dato un punto di sutura al Pronto soccorso. lo a mia volta, dopo avere ricevuto il colpo, ho afferrato il bastone con le due mani e sono riuscito a scaraventare lontano da me il Paolo. Sono nuovamente fuggito e sono stato nuovamente raggiunto; il Paolo mi ha colpito col bastone, ora ricordo. era un paletto verde, e mi ha colpito alla tempia, alla testa e in varie parti del corpo. Io ho visto per terra la tavola con la scritta di cui ha detto prima il dottor Masone e gliela ho rotta in testa, ma questo non è servito a farlo smettere.
Sembrava che non avesse sentito niente e sembrò non sentire nemmeno due calci nelle "palle". Allora gli ho afferrato i capelli, gli ho abbassato la faccia e gli ho dato due calci in faccia. Il Paolo barcollava, ma ha trovato ancora la forza di darmi una bastonata sul naso. Allora non ci ho visto più e con uno dei due pezzi della tavola di cui ho detto prima l'ho colpito di taglio più volte finché non l'ho sentito cadere a terra e rantolare. Allora sono scappato in direzione della macchina, portando con me i due pezzi di tavola che ho buttato e anche il paletto verde che ho pure buttato vicino alla rete e vicino alla macchina. Subito dopo sono salito in macchina e sono fuggito con quella. Ero stravolto e ho impiegato del tempo per metterla in moto e per accendere le luci. Nel fuggire non so se sono passato o meno con l'auto sul corpo del Paolo.
Descrivo le manovre che ho fatto con l'auto. L'auto era col muso rivolto alla rete di recinzione e con il "culo" alla porta di calcio. Ho ingranato la retromarcia e sono passato sotto la porta, e poi ho fatto la conversione curvando a sinistra».

Il dottor Masone a questo punto precisa che la manovra descritta corrisponde più o meno alle tracce rinvenute sul luogo.

«Ripeto che nel guidare non ho fatto caso a nulla: la macchina sobbalzava perché il terreno era pieno di buche».

Il dottor Masone, a questo punto, a richiesta del magistrato precisa che parte del tragitto percorso dall'auto presenta effettivamente accidentalità del terreno, ma che il punto in cui è stato trovato il cadavere è invece piuttosto regolare anche se in terra battuta. Il colonnello Vitali a questo punto fa presente che in base alle ultime ispezioni dell'auto di cui gli è stata data notizia dal personale operante, risulterebbero tracce di sangue e di capelli nella parte inferiore esterna dell'auto "Alfa G7" del Pasolini. Contestato quanto sopra all'imputato, lo stesso dichiara:

«lo non ho investito volontariamente il corpo del Paolo e nemmeno ricordo di esserci passato sopra con l'auto inavvertitamente. Ero sotto shock e non capivo niente.
Ricordo solo che sulla strada alla prima fontanella mi sono fermato per lavarmi e togliermi le macchie di sangue che avevo indosso».

Il colonnello Vitali riferisce, per quanto appreso a sua volta dal personale operante, Carabinieri di Ostia, che subito dopo l'arresto il Pelosi chiese di cercare in macchina un anello, e che un anello fu poi rinvenuto vicino al cadavere. Contestata la circostanza, il Pelosi risponde:

«Io cercavo le sigarette, l'accendino e un anello mio: si tratta di un anello d'oro con pietra rossa, a fianco della pietra ci stavano due aquile e tutt'intorno la scritta "United States of America"».

A questo punto il dottor Masone esibisce l'anello repertato che il Pelosi riconosce per il proprio e dichiara che "può darsi" che l'abbia perso mentre vibrava i colpi. Si fa presente che la scritta è lievemente differente e che dice esattamente "United States Army". L'imputato dichiara:

«L'anello è mio, l'ho comprato da uno "stuart" che lo ha portato dall'America. Ripeto che i fatti sono quelli da me narrati e che ho agito per difendermi e che ho colpito duramente quando ho avuto l'impressione che il Paolo mi volesse proprio ammazzare per come si stava comportando. Durante i fatti che ho descritto ero solo, anzi siamo stati sempre solo io e il Paolo dal momento in cui abbiamo lasciato l'osteria fino a quando è successo quello che è successo».

A domanda risponde:

«Delle persone di cui ho detto fornisco i dati che possiedo: Claudio si chiama Seminara e abita in via (...); lo "Sburacchione" si chiama Adolfo De Stefanis e abita, credo, in via (...); di Salvatore ignoro il cognome, so che abita verso la Batteria Nomentana».


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