martedì 12 agosto 2008

La Narrativa - Parte 2

Teorema
1968


Tra i drammi teatrali che Pasolini scrisse nel 1965, durante una malattia che lo costrinse a ridurre i ritmi del suo lavoro cinematografico, vi era anche un primo abbozzo di Teorema. Divenne però un libro – parte in prosa, parte in versi – pubblicato nel 1968, quasi contemporaneamente alla sceneggiatura e alla produzione dell'omonimo film.

La sirena di una fabbrica, in quel clima sempre un po' nebbioso che vi è in primavera o in autunno nelle campagne nei dintorni di Milano, il proprietario della fabbrica stessa (Paolo) che esce in Mercedes dalla fabbrica e si avvia verso la città sono gli elementi che costituiscono il quadro d'esordio della storia, oltre a una rispettabile famiglia borghese nella quale vi sono lo stesso Paolo, gli studenti Pietro e Odetta, figli di Paolo, Lucia, annoiata moglie ed Emilia, una “esclusa di razza bianca”, come la definisce Pasolini, cameriera di origini contadine nella ricca casa padronale. Tutto, nella casa, si svolge con molto ordine e regolarità, con la scontata “normalità” che si immagina, appunto, in una famiglia borghese benestante.
Tale normalità sarà sconvolta dall'arrivo di un ospite misterioso, alle cui origini e provenienza non si fa cenno, “straordinario prima di tutto per bellezza”. Emilia sarà la prima ad essere affascinata oltre misura da questo ospite, e ad essere da lui soccorsa quando, sconvolta, quasi isterica, tenterà addirittura di uccidersi. Il giovane ospite la consolerà nel modo che Emilia stessa vuole, “prestandosi al suo desiderio di essere posseduta da lui”.
Via via tutti i componenti della famiglia, dal giovane Pietro, che dorme nella stessa stanza dell'ospite, a Odetta, a Lucia e infine a Paolo, il capofamiglia, conquistati dalla bellezza e dolcezza dell'ospite, hanno rapporti sessuali con lui. Finché, misteriosamente com'è arrivato, l'ospite partirà dalla ricca casa della famiglia borghese. Il cui ordine, però, è ormai sconvolto. Così si esprime, per esempio, Lucia:

Insomma, nella mia famiglia, tutti viviamo
nell'esistenza come essa deve essere;
le idee attraverso cui giudichiamo noi stessi
e gli altri, i valori e gli avvenimenti,
sono, come si dice, un patrimonio comune
a tutto il nostro mondo sociale.
[…]
Come potevo vivere in tanto vuoto? Eppure ci vivevo.
E quel vuoto era, a mia insaputa,
pieno di convenzioni, ossia
di una profonda bruttezza morale.
E in questo modo Paolo:
Se dunque da molto tempo
io avevo assunto la forma che dovevo assumere
e la mia figura era, in qualche modo, perfetta,
ora, che cosa mi rimane?
Non vedo niente che possa reintegrarmi
nella mia identità. Ti guardo: non mi ascolti
con imparzialità – perché tu non ti dividi in parti –
ma con dedizione – perché tu ti dai tutto a ognuno.
Emilia tornerà nella cascina delle sue origini: Pasolini narra come Emilia terminerà il proprio viaggio verso la natìa campagna: “In fondo, oltre il mucchio di mattoni rossi e degli attrezzi, c'è una vecchia panca – bruciata dal sole, marcita dalla pioggia – restata lì chissà da che tempi dell'infanzia di Emilia. È questa panca che essa, riconoscendola, guadagna con un passo che è ritornato il passo invasato e ostinato di prima, e vi si mette a sedere, restando rigida e immobile, nella luce estranea del sole.” Emilia resterà lì, ferma e priva di qualsiasi espressione, fino a raggiungere un soprannaturale stato di santificazione: arriverà fino a levitare, rimanendo sospesa nel cielo sopra la sua antica cascina, nel muto e religioso stupore dei contadini raccolti nel cortile della cascina.
Odetta finirà in una casa di cura: “Essa è lì, nel suo letto, ferma, con la faccia in alto, gli occhi senza alcuna commozione, con solo un po' di spavento – fissi nel vuoto e il pugno stretto contro il fianco”.
Ritroveremo il giovane Pietro che medita su un dipinto che già aveva ammirato insieme all'ospite, “vi si accanisce sopra, come a ricercare il senso non solo storico, cui tutti questi segni così rigorosi e precisi si riferivano; ma anche il senso che aveva avuto peso per lui, e per cui quel quadro era stato una rivelazione, solo poche settimane, o pochi mesi prima […] Grande è il mucchio dei disegni e delle pitture dentro la cameretta di Pietro [dipinge su vetro, sovrapponendo man mano un vetro all'altro, confondendo in tal modo le forme che traccia] I movimenti di Pietro, nell'eseguire queste operazioni, sono meccanici e ispirati; e la sua voce che instancabile li commenta ha perso ogni colorazione […] Bisogna inventare nuove tecniche – che siano irriconoscibili– che non assomiglino a nessuna operazione precedente. Per evitare così la puerilità e il ridicolo. Costruirsi un mondo proprio, con cui non siano possibili confronti”.
Lucia percorre la città, in macchina, e si accompagna ripetutamente con alcuni giovani raccolti in strada. Poi, risalita in macchina, “il disorientamento di Lucia dipinto nella sua faccia, che è come diventata di vetro, nasconde una sola ferrea volontà. Ma quale? Forse non è che un irrigidimento, un rifiuto. Un 'no' detto a una verità, sia pur infima, scarsa e disperata”.
Paolo raggiungerà dapprima la stazione ferroviaria, là si denuderà (l'avrà già fatto anche simbolicamente, donando la propria fabbrica alle maestranze) e infine percorrerà, un arido deserto:
Ah, miei piedi nudi, che camminate
sopra la sabbia del deserto!
Miei piedi nudi, che mi portate
là dove c'è un'unica presenza
e dove non c'è nulla che mi ripari da nessuno sguardo! […]
Bene. E cosa dire di me?
Di me, che sono dove ero, e ero dove sono,
automa di una persona reale
mandato nel deserto a camminare per essa?
IO SONO PIENO DI UNA DOMANDA A CUI NON SO RISPONDERE. […]
Perché guardo fisso davanti a me, come vedessi qualcosa? […]
E perché l'urlo, che, dopo qualche istante,
mi esce furente dalla gola, […]
È un urlo che vuol far sapere,
in questo luogo disabitato, che io esisto,
oppure, che non soltanto esisto,
ma che so. È un urlo
in cui in fondo all'ansia
si sente qualche vile accento di speranza;
oppure un urlo di certezza, assolutamente assurda,
dentro a cui risuona, pura, la disperazione.
L'ultima metafora, quella del deserto, e dell'urlo nel deserto che quasi più nulla ha di umano, riassume il messaggio del libro: una presa di coscienza dolorosa e drammatica, provocata da un elemento estraneo, (in questo caso, dall'ospite misterioso, la cui capacità di possesso fisico è a sua volta metafora dell'impossessamento dei pensieri e delle coscienze), della nullità dell'esistenza borghese (quel mondo “pieno di convenzioni, ossia di una profonda bruttezza morale”) produce in tutti i personaggi, magistralmente delineati da Pasolini, una perdita di identità (un deserto, appunto) che, forse, anche se l'autore non lascia intravedere che “qualche vile accento di speranza”, avrà un momento di rinascita e che può comunque essere recuperata solo attraverso un processo lungo e doloroso।

Petrolio
Il mondo contemporaneo
in Petrolio, l'ultima fatica narrativa di Pasolini.

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Petrolio: un libro dalla copertina bianca, tutta bianca; solo il titolo è in rosso, colore archetipico, il "primario" di tutti i colori. I possibili significati del bianco nella cultura occidentale (Michel Pastoureau, Dictionnaire des couleurs de notre temps, Editions Bonneton 1992) vengono così indicati: colore della purezza e della castità, della verginità e dell'innocenza; colore dell'igiene, della pulizia, del freddo, della sterilità; colore della semplicità, della discrezione, della pace; colore della saggezza e della vecchiaia; colore dell'aristocrazia e della monarchia; colore del divino; colore dell'assenza di colore: il grado zero del colore.
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Pier Paolo Pasolini
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Petrolio
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Dice Marco Belpoliti: "È raro che i grafici editoriali scelgano il bianco per le copertine dei libri, anche per ragioni pratiche: le copertine bianche si sporcano in fretta, ingialliscono. Einaudi scelse, nel 1992, il 'tutto bianco' per la copertina di Petrolio di Pier Paolo Pasolini. Nessuna scelta fu più efficace: Petrolio è un canovaccio, un brogliaccio, è la restituzione filologica di un manoscritto incompiuto; perciò il bianco di quella copertina era insieme una superficie e uno spazio: il libro come scatola che contiene i materiali impuri di un libro in fieri, inconcluso. Questo bianco non era azzeramento dei significati, ma significato esso stesso: quello dei fantasmi, delle apparizioni, della morte; della paura e dell'inquietudine".
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Pasolini disse della sua ultima opera di narrativa: "Ho iniziato un libro che mi impegnerà per anni, forse per il resto della mia vita. Non voglio parlarne, però: basti sapere che è una specie di 'summa' di tutte le mie esperienze, di tutte le mie memorie". Così scriveva il 10 gennaio 1975. Il nuovo libro al quale Pasolini stava lavorando – e che egli stesso aveva indicato come un corposo volume che avrebbe toccato le duemila pagine – rimase incompiuto. Tutto quanto lo scrittore era riuscito a comporre è stato pubblicato, come si è accennato all'inizio, nel 1992 da Einaudi. O, per meglio dire, il volume pubblicato comprende 133 "appunti", parecchie annotazioni o "promemoria", oltre a una lettera ad Alberto Moravia; contiene pure alcuni schizzi inseriti dall'autore nel manoscritto. .

Paolo Volponi, scrittore italiano recentemente scomparso, nel 1976, riferendosi all'ultimo colloquio avuto con Pier Paolo Pasolini, suo grande amico, a sua volta racconta: «Una volta mi ha detto, e lo ripeto cercando nel ricordo le sue parole: "Mah, io adesso, finito Salò, non farò più cinema, almeno per molti anni. Ho scritto apposta l'Abiura della Trilogia della vita, e non farò più cinema. Voglio rimettermi a scrivere. Anzi, ho ricominciato a scrivere. Sto lavorando a un romanzo. Deve essere un lungo romanzo, di almeno duemila pagine. S'intitolerà Petrolio. Ci sono tutti i problemi di questi venti anni della nostra vita italiana politica, amministrativa, della crisi della nostra repubblica: con il petrolio sullo sfondo come grande protagonista della divisione internazionale del lavoro, del mondo del capitale che è quello che determina poi questa crisi, le nostre sofferenze, le nostre immaturità, le nostre debolezze, e insieme le condizioni di sudditanza della nostra borghesia, del nostro presuntuoso neocapitalismo. Ci sarà dentro tutto, e ci saranno vari protagonisti. Ma il protagonista principale sarà un dirigente industriale in crisi". Per questo si era rivolto a me, per avere indicazioni e anche materiale, per esempio sulla vita dell'industria [Volponi è stato anche dirigente della Olivetti di Ivrea], sulle abitudini e sul linguaggio dei mondi chiusi del potere industriale, per avere schemi organizzativi dei processi aziendali. "Poi ci sarà anche un uomo della banca. Ci saranno anche dei protagonisti a livello popolare, quasi inarticolati", aveva continuato a dirmi, "nemmeno più con dialetti perché i dialetti ormai sono finiti con questa lingua orrenda dei comunicati del telegiornale, della pubblicità, del recitativo ufficiale, per cui finirà magari che quelli più colti parleranno in un certo modo letterario con un gusto del dialetto assunto come distinzione e quelli meno colti, addirittura analfabeti, parleranno un po' come certi nostri ministri democristiani alla televisione, con tutti questi 'ione', 'enti', 'enze' ecc.". Queste erano le confidenze che mi faceva a Roma una sera dopo aver cenato insieme, non molto prima del due novembre dell'anno scorso dalle parti di piazza Farnese. Forse non mi ricordo bene, ma quella deve essere stata l'ultima volta che l'ho visto".

La stesura di Petrolio, come si è accennato, è largamente incompiuta, cosicché darne un riassunto o farne un commento complessivo risulta impossibile: oltretutto vi sono spesso appunti, o note apposte dall'autore che spesso si contraddicono tra loro e rendono ancora più disagevole giungere a delle conclusioni complessive. In questo suo ultimo romanzo, Pasolini ritorna su alcuni dei temi che egli preferisce: la "mutazione antropologica" a causa della quale ormai tutta una popolazione si è trasformata in neo-borghesia, la sparizione del "popolo puro", portatore di grandi valori, l'identificazione dei democristiani con i fascisti. Il tutto, scritto nella "lingua che si adopera per la saggistica, per certi articoli giornalistici, per le recensioni, per le lettere private o anche per la poesia […] Se io dessi corpo a quel che qui è solo potenziale, e cioè inventassi la scrittura necessaria a fare di questa storia un oggetto, una macchina narrativa che funziona da sola nell'immaginazione del lettore, dovrei per forza accettare quella convenzionalità che è in fondo giuoco. Non ho voglia più di giuocare […] non è un proclama, ehi, uomini! io esisto, ma il preambolo di un testamento, testimonianza di quel poco di sapere che uno ha accumulato, ed è completamente diverso da quello che egli si aspettava", come lo stesso Pasolini scrive nella già citata lettera ad Alberto Moravia, alle pagine 544-545.

Si uniscono, nel romanzo, una esasperata esibizione strutturale e modi allegorici da sacra rappresentazione sul fondo di un dramma cosmico. Nel romanzo vi è tutto il mondo contemporaneo, vi è cioè un contributo essenziale che Pasolini offre per la comprensione di ciò che è accaduto nel nostro paese tra gli anni Sessanta e gli anni Ottanta. E molte sono, in Petrolio, le dichiarazioni di Pasolini su se stesso. Alcune citazioni possono fornire qualche esempio:

«Carlo guardava quei fascisti che gli passavano davanti. […] Le persone che passavano davanti a Carlo erano dei miseri cittadini ormai presi nell'orbita dell'angoscia e del benessere, corrotti e distrutti dalle mille lire di più che una società "sviluppata" aveva infilato loro in saccoccia. […] I giovani avevano i capelli lunghi di tutti i giovani consumatori, con cernecchi e codine settecentesche, barbe carbonare, zazzere liberty; calzoni stretti che fasciavano miserandi coglioni. La loro aggressività, stupida e feroce, stringeva il cuore. […] Quella massa di gente sciamava per quella vecchia strada senza il minimo prestigio fisico, anzi fisicamente penosa e disgustosa. Erano dei piccoli borghesi senza destino, messi ai margini della storia del mondo, nel momento stesso in cui venivano omologati a tutti gli altri». (pp. 501-503)

«Istituire all'interno del paragrafo precedente una sintesi della nuova situazione politica italiana: ossia le ragioni che hanno spinto Cefis dell'Eni alla Montedison, e la conquista della Presidenza dell'Edison con l'aiuto dei fascisti» (annotazione di Pasolini a p. 526)

«La liturgia continua […] nel programma stilato nel cuore del nostro democristiano nuovo, che, liberatosi da un fascismo, non intende (a parole | almeno in parte |) cadere in un fascismo nuovo, che è innominabile. Stavolta si tratta di un "esame di coscienza" esercitato all'interno del proprio essere; un'"autocritica" il cui oggetto è il "parassitismo" che è un problema esclusivamente tipico di chi è al potere: per comodità del lettore traspongo la prosa nel suo reale schema di "cursus" recitabile secondo il modello dell'omelia, o del "Mistero":

Il fenomeno del parsassitismo riguarda tutti coloro che
di volta in volta,
in cambio di un determinato guadagno ricevono beni
o servizi che ne valgono assai meno,
o addirittura intasano senza ceder nulla e tutto ciò fanno:
o sfruttando particolari posizioni di monopolio o quasi monopoliooooo,
o tempi difficiliiiii,
o altrui bisogni pressantiiiiii,
o ignoranza dei richiedentiiii,
o deficiente sorveglianza dei soprastantiiiiii,
o esecuzioni trasandateeeeee,
o non rispetto di giorni e di orari di lavorooooo,
o pratiche fraudolenteeee…» (pp. 528-529)

In Petrolio vi è perfino (p. 546) un appunto che contiene un accenno inquietante:
«La bomba viene messa alla stazione di Bologna. La strage viene descritta come una 'Visione'».
La strage alla stazione di Bologna è del 2 agosto 1980 e, in questo suo ultimo romanzo incompiuto, pare che la "visione" l'abbia avuta proprio Pasolini.

Una riflessione che ho trovato spontaneo compiere, leggendo Pasolini più in generale e in particolare il suo Petrolio, è sulla validità e l'attualità di certe analisi e di certe previsioni – soprattutto in tema di sfaceli e di stravolgimenti politici, economici, sociali e ambientali – che già negli anni Settanta venivano espresse da questo scrittore, quasi a precorrere situazioni e avvenimenti dei giorni nostri.

Pasolini, a proposito diPetrolio, ha parlato di "processo formale vivente" e di "forma magmatica e forma progressiva della realtà"; in effetti gli "appunti" presenti nell'intera opera hanno una intercambiabilità che costituisce il senso stesso del libro, che è disseminato di appunti e di promemoria.

«Tutti i precedenti paragrafi vanno riuniti in un solo grande capitolo che
ha per centro la festa della Sig.ra Giulia Miceli ecc. ecc.» (appunto di p. 533)

«Ci sono persone che non credono niente fin dalla nascita. Ciò non toglie che tali persone agiscano, facciano qualcosa della loro vita, si occupino di qualcosa, producano qualcosa. Altre persone invece hanno il vizio di credere: i doveri si concretizzano davanti al loro occhi in ideali da realizzare. Se un bel giorno costoro non credono più – magari piano piano, attraverso una serie successiva, logica o magari anche illogica, di disillusioni – ecco che riscoprono quel "nulla" che per altri è stato sempre, invece, così naturale.» (appunto 84, p. 395)

«Nel progettare e nel cominciare a scrivere il mio romanzo, io in effetti ho attuato qualcos'altro che progettare e scrivere il mio romanzo: io ho cioè organizzato in me il senso o la funzione della realtà; e una volta che ho organizzato il senso e la funzione della realtà, io ho cercato di impadronirmi della realtà. […]
Nello stesso tempo in cui progettavo e scrivevo il mio romanzo, cioè ricercavo il senso della realtà e ne prendevo possesso, proprio nell'atto creativo che tutto questo implicava, io desideravo anche di liberarmi di me stesso, cioè di morire.» (appunto 99 p. 419)

Concludo questo breve commento su Petrolio con le parole di Franco Fortini che in Attraverso Pasolini (Einaudi 1993), soffermandosi a sua volta sui contenuti e la forma letteraria di Petrolio, fa anche alcune riflessioni sulla vita di Pasolini:
«La sua vicenda biografica era anche quella del povero, ricco di genio e di cultura e di sregolatezza (uno dei modelli storici del piccolo-borghese), entrato di forza a far parte del mondo dei ricchi potenti e beneducati e a orgoglio e orrore della propria genealogia di classe; ma nel senso di non voler sapere […] quali contropartite visibili e invisibili gli sarebbero state richieste, incluso il proprio assassinio reale e allegorico. […] Non era solo mancanza di attenzione o penetrazione dei moti profondi della economia e della sociologia […] Era furia metabolica che voleva restituire subito, sulle pagine, ogni informazione. E rimanere nel monologo. Ma non si fa il socialismo in un cuore solo».

NOTA Poiché alcuni commentatori di Petrolio sostengono ancora oggi (appellandosi nel migliore dei casi alla incompiutezza del romanzo, ma anche, in alcuni casi, alla sua "asprezza") che l'ultima opera di Pier Paolo Pasolini sia "qualcosa che non si capisce" e che "non si sarebbe mai dovuto pubblicare", si riportano nella sezione "Narrativa" di "Pagine corsare" [vedi sommario a destra] alcuni passaggi del testo pasoliniano, e precisamente:
- Traccia del romanzo (pp. 541-543)
- Lettera ad Alberto Moravia (pp. 544-545)
- L'Epochè: Storia di un padre e delle sue due figlie (pp. 422-428)
- L'Epochè: Storia di un volo cosmico (pp. 436-443)
I due brani dall'Epochè sono due racconti nel racconto perfettamente "compiuti", "finiti". Nel primo è narrata una vicenda esemplare di "sete di potere", tema assai caro a Pier Paolo Pasolini; il secondo è un'atroce ma divertentissima riflessione sulla tragica stupidità umana ambientata in uno scenario fantascientifico assolutamente insolito in Pasolini.
L'intento, nel proporre tali brani, è quello di dimostrare quanto l'ultima opera del poeta si svolga in una forma letteraria nuova, perfettamente lucida e comprensibile. Di ciò d'altronde rende in parte testimonianza anche il contenuto della lettera [mai spedita] che Pasolini indirizzò ad Alberto Moravia। Un ringraziamento infine ad Alessandro Ryker per gli spunti di riflessione e approfondimento che con intelligenza, sensibilità e generosità ha voluto fornire.


Storie della città di Dio
(racconti e cronache romane 1950-1966)


Quest'ennesimo libro postumo raccoglie brani smozzicati di un interessantessimo periodo della vita di Pasolini: quello della sua venuta a Roma, dei primi difficili esordi letterari che culminarono in Ragazzi di vita e nelle Ceneri di Gramsci. La raccolta comprende brani ormai introvabili che egli scriveva, per pochi soldi, (se lo pagavano) in giornali e riviste le più varie (Il mattino d'Italia, Il quotidiano, La Libertà d'Italia e così via, ma poi anche l'Unità e Vie nuove).

Il titolo (di suggestione agostiniana) Storie della città di Dio è un appunto di mano di Pasolini su una cartella che avrebbe dovuto raccogliere gli scritti "romani". Anzi La città di Dio era il titolo pensato per il suo terzo romanzo romano (che concepì assieme anche se l'ultimo non lo realizzò) che altrove è indicato come Il rio della Grana. E ancora, il suo secondo romanzo "romano" (Una vita violenta) ha il secondo capitolo intitolato "Notte nella città di Dio". Ma ci sono anche pezzi totalmente inediti come Il gergo a Roma: "Il gergo è un linguaggio tecnico; come tale è al limite dello strumentale. E come tale oggetto di ricerca scientifica: "il malandrinismo, la reticenza, l'allusione; l'arte del dire e del non dire, dell'ammiccare", come fanno anche in Ascoli e già l'ho notato. Ma il lessico deformato è "sotto il segno del piacere e della coscienza d'inventare": "rombonze" è la motocicletta, "patatanza", la patata, "un tinello de latte sozzo", un cappuccino.

Altrove parla del suo romanesco e anche di quella di poeti come il Belli (che considerava il migliore dell'Ottocento, un vero barocco "con bagliori caravaggeschi") ma capisce perfettamente che questi parlava una lingua aristocratica delle plebe trasteverina e borghiciana e lui quella del proletariato delle borgate e dei tuguri, inquinato dai "buzzurri" venuti da fuori Roma. Anche Pascarella era un piccolo-borghese "accademico" e citava dei versi (come quello di Villa Glori dove dice che i nemici erano così vicini "che quasi je potemo sputà in faccia") per far vedere che era falso, un benpensante patriottico, estremamente pericoloso perché da lui verrà il fascismo.

La parte più bella è la prima (Racconti romani) quando Pasolini si faceva le ossa nella vita dei suoi personaggi ("Il Morbidone che se stava con la spalla appoggiata a uno spIgolo nero, aspettando che passasse il tempo") e, pian piano, nella parlata romanesca: prima una o due frasi ( "A moro, sai che or'è?"), poi qualche espressione isolata (come "storcicarello"), un titolo ("La passione del fusajaro") poi, da Terracina , inizia il suo stile che aveva imparato a registrare col magnetofono.

Bello è il brano sui polacchi, rievocato dal Riccetto: "E mo ce stava un regazzino ch'era vestito de americano, na mascotte là, uno ch'era er Leccapiedi. Viene da me, e m'ha detto: Riccé, in quer camio ce sta la robba, sei la piji famo a mezzo. Io je ho detto: Bè, va bbè, insegneme qual'è er camio. Ma quanno andamo pe' spartì ce stava pure er Polacco che scese da la macchina. Avemo fatto ttre vorte er giro de Monteverde. Finalmente lui che ciaveva 'e gambe più lunghe m'ha ripreso, prima m'ha legato ar palo de la luce, e poi m'ha menato.? Li carci, li schiaffi, le cintate!"

Ebbe anche (e fu pubblicato poi in Il cavallo di Troia, postumo, nella primavera del 1989) un'idea per un film ("senza speranza", un'atmosfera ch'era tutta il contrario di Roma città aperta) con i ventuno ponti di Roma dal titolo I morti di Roma . Era un film ad episodi (benché Pasolini affermi di no) di cui quattro tragici (che finivano tutti con un "morto) e il quinto che terminava in una "esplosiva, generale generosità: in qualche modo di speranza". Era l'episodio di Sburdellino, trascinato dalla corrente mentre tenta di acchiappare una rondine bagnata: riesce a salvarla, l'asciuga e la fa rivolare in mezzo alle altre, "sfrecciando e stridendo".

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