martedì 12 agosto 2008

Il Cinema - Parte 2

Il Vangelo secondo Matteo
1964
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Scritto e diretto da Pier Paolo Pasolini
Fotografia Tonino Delli Colli; architetto-scenografo Luigi Scaccianoce; costumi Danilo Donati; musiche a cura di Pier Paolo Pasolini; musiche originali Luis Bacalov; montaggio Nino Baragli; aiuto alla regia Maurizio Lucidi; assistenti alla regia Paul Schneider, Elsa Morante.
Interpreti e personaggi Enrique Irazoqui (Gesù Cristo, doppiato da Enrico Maria Salerno); Margherita Caruso (Maria Giovane); Susanna Pasolini (Maria Anziana); Marcello Morante (Giuseppe); Mario Socrate (Giovanni Battista); Rodolfo Wilcock (Caifa); Alessandro Clerici (Ponzio Pilato); Paola Tedesco (Salomè); Rossana Di Rocco (angelo del Signore); Renato Terra (un fariseo); Eliseo Boschi (Giuseppe D'Arimatea); Natalia Ginzburg (Maria di Betania); Ninetto Davoli (pastore); Amerigo Bevilacqua (Erode I); Francesco Leonetti (Erode II); Franca Cupane (Erodiade); Apostoli Settimio Di Porto (Pietro); Otello Sestili (Giuda); Enzo Siciliano (Simone); Giorgio Agamben (Filippo); Ferruccio Nuzzo (Matteo); Giacomo Morante (Giovanni); Alfonso Gatto (Andrea); Guido Gerretani (Bartolomeo); Rosario Migale (Tommaso); Luigi Barbini (Giacomo di Zebedeo); Marcello Galdini (Giacomo di Anfeo); Elio Spaziani (Taddeo).
Produzione Arco Film (Roma) / Lux Compagnie Cinématographique de France (Parigi);produttore Alfredo Bini; pellicola Ferrania P 30; formato 35 mm b/n; macchine da ripresa Arriflex; sviluppo e stampa, effetti ottici SPES; registrazione sonora Nevada; doppiaggio CDC; missaggio Fausto Ancillai; distribuzione Titanus
Riprese aprile-luglio 1964; teatri di posa Roma, Incir De Paolis; esterni Orte, Montecavo, Tivoli, Canale Monterano, Potenza, Matera, Barile, Bari, Gioia del Colle, Massafra, Catanzaro, Crotone, Valle dell'Etna; durata 137 minuti.
Prima proiezione XXV mostra di Venezia, 4 settembre 1964; premi XXV mostra di Venezia: Premio speciale della giuria, Premio OCIC (Office Catholique International du Cinéma), Premio Cìneforum, Premio della Union International de la Critique de Cinema (UNICRIT); Premio Lega Cattolica per il Cinema e la Televisione della RFT; Premio Città di Imola Grifone d'oro; Gran premio OCIC, Assisi, 27 settembre 1964; Prix d'excellence, IV concorso tecnico del film, Milano; Premio Caravella d'argento, Festival internazionale di Lisbona, 26 febbraio 1965; Premio Nastro d'Argento 1965 per la regia, la fotografia e i costumi.
Le vicende narrate nel film

Il film è una riproposizione molto fedele del Vangelo secondo Matteo. Si ripercorrono quindi le tappe della vita di Gesù Cristo: la nascita, Erode, il battesimo di Giovan Battista fino ad arrivare alla morte e alla resurrezione. Non vi sono variazioni nella storia, né cambiamenti anche testuali apportati dal regista alla versione di san Matteo.
I commenti

Dice Pasolini del suo Vangelo: "Avrei potuto demistificare la reale situazione storica, i rapporti fra Pilato e Erode, avrei potuto demistificare la figura di Cristo mitizzata dal Romanticismo, dal cattolicesimo e dalla Controriforma, demistificare tutto, ma poi, come avrei potuto demistificare il problema della morte? Il problema che non posso demistificare è quel tanto di profondamente irrazionale, e quindi in qualche modo religioso, che è nel mistero del mondo. Quello non è demistificabile"..
L'idea pasoliniana del Vangelo, cioè, non partiva dalla volontà di mettere in discussione dogmatismi o miti, ma si riferiva anche e in primo luogo all'idea della morte, uno dei temi fondamentali dell'impegno intellettuale del Poeta: "È dunque assolutamente necessario morire, perché, finché siamo vivi, manchiamo di senso, e il linguaggio della nostra vita (con cui ci esprimiamo, e a cui dunque attribuiamo la massima importanza) è intraducibile: un caos di possibilità, una ricerca di relazioni e di significati senza soluzione di continuità"..
Non casualmente – come già nelle opere cinematografiche precedenti – Pasolini affida a un linguaggio sonoro raffinato tutte le vicende più significative narrate nel film. Per una sensibilità quale quella del Poeta, il ricorso alla bachiana Passione secondo Matteo è quasi d'obbligo. Ma, in particolare, alla morte di Gesù, egli associa la Musica funebre massonica, che è a sua volta una delle più alte creazioni di Mozart, che in essa ha anche espresso la propria immagine della morte: nessuna titanica lotta contro il destino ineluttabile. La morte non lo spaventa: Mozart la chiama perfino "cara amica"; nella musica stessa si percepisce il dolore per la separazione, a cui Mozart si dà, senza tuttavia lasciarsene sopraffare..
Vi è un solo momento della lunga sequenza della crocefissione e della morte in cui il racconto non è affidato al solo indivisibile binomio "immagini-musica": è quello in cui Cristo pronuncia queste ultime parole: "Voi udrete con le orecchie ma non intenderete e vedrete con gli occhi ma non comprenderete, poiché il cuore di questo popolo si è fatto insensibile e hanno indurito le orecchie e hanno chiuso gli occhi per non vedere con gli occhi e non sentire con le orecchie"..
Per rimanere ancora un momento nell'ambito delle scelte musicali effettuate da Pasolini nel Vangelo: ho trovato straordinario l'accostamento delle ultime immagini del film (Maria – che è qui, non casualmente, la stessa madre di Pasolini – si reca con altri alla tomba del Figlio; il sepolcro si apre e Cristo non è più avvolto nel sudario: è risorto!) al Gloria di una messa cantata congolese. Nel canto, il testo è in latino e la musica ha tutti gli accenti, gli strumenti e i ritmi del folclore africano, quasi a sottolineare l'universalità di un profondo sentimento religioso..
Il Vangelo cui Pasolini si richiama è quello di Matteo, dal quale emerge una figura umana, più che divina, di Cristo che, anche se ha molti tratti di dolcezza e mitezza, reagisce con rabbia all'ipocrisia e alla falsità. È un Cristo sorretto da una forte volontà di redenzione per le vittime della istituzionalizzazione della religione operata dai farisei "sepolcri imbiancati", che l'hanno adottata con ipocrisia e iniquità quale strumento di repressione politica e sociale. .
È un Cristo che non è venuto a "portare la pace ma la spada", perché sia possibile accedere al regno di Dio con cuore puro "come quello dei bambini". .
È, anche, un Cristo rivoluzionario. Nel corso di un dibattito tenutosi negli ultimi mesi del 1964, Pasolini dichiarò: "[...] mi sembra un'idea un po' strana della Rivoluzione questa, per cui la Rivoluzione va fatta a suon di legnate, o dietro le barricate, o col mitra in mano: è un'idea almeno anti-storicistica. Nel particolare momento storico in cui Cristo operava, dire alla gente 'porgi al nemico l'altra guancia' era una cosa di un anticonformismo da far rabbrividire, uno scandalo insostenibile: e infatti l'hanno crocifisso. Non vedo come in questo senso Cristo non debba essere accepito come Rivoluzionario [...]"..

In effetti, per quel momento storico (e, per alcuni versi, anche per il momento storico nel quale Pasolini stesso si collocava) non sono da considerarsi rivoluzionarie predicazioni nelle quali si dichiara: "fate agli altri quanto gli altri volete che facciano a voi", "non accumulate tesori su questa terra", "nessuno può servire due padroni: Dio e il denaro"?.

Quando fu presentato, nel 1964, il film fu ampiamente apprezzato (e premiato) dalla critica cattolica, quanto duramente contestato dalla sinistra. A coloro che lo avversavano Pasolini rispose: "[...] io ho potuto fare il Vangelo così come l'ho fatto proprio perché non sono cattolico, nel senso restrittivo e condizionante della parola: non ho cioè verso il Vangelo né le inibizioni di un cattolico praticante (inibizioni come scrupolo, come terrore della mancanza di rispetto), né le inibizioni di un cattolico inconscio (che teme il cattolicesimo come una ricaduta nella condizione conformistica e borghese da lui superata attraverso il marxismo)".


Pasolini lesse il Vangelo, per sua stessa ammissione, per la prima volta nel 1942, e la seconda ad Assisi nel 1962. In quest'ultima occasione Pasolini ebbe l'idea di un film sul Vangelo. La scelta di San Matteo non è casuale; Pasolini ritiene la versione dell'apostolo Matteo quella che più d'ogni altra risalta l'umanità del Cristo, il suo essere uomo tra gli uomini. Pasolini non è un cattolico, "non sono nemmeno cresimato" dirà rispondendo alle critiche provenienti da ambienti marxisti, per ribadire il suo ateismo, e proprio questo suo distacco, questa mancanza di "resistenze interne" lo convincerà a terminare questo ambizioso e rischioso progetto. Pasolini era stato condannato, un anno prima a quattro mesi di reclusione per vilipendio alla religione dello Stato, per l'episodio La ricotta del film RoGoPaG. Dirà Alfredo Bini, produttore del film:
"Banche, ministero, distributori mi dicevano che ero matto a voler fare un film commerciale tratto dal Vangelo, e per di più diretto da Pasolini, appena condannato a quattro mesi per vilipendio alla religione. Ora tutti dicono che sei religioso. Strano. Quando hai fatto La ricotta e Il Vangelo non se n'era accorto nessuno. Nemmeno quando organizzai la proiezione del film per i padri conciliari: avevamo avuto il permesso per avere l'Auditorium di via della Conciliazione, ma la mattina alle 10 tutti quei cardinali, bianchi, gialli, neri, con i loro berrettini e i mantelli rossi si accalcavano davanti alla porta sbarrata su cui c'era scritto "lavori in corso". Una bella idea dettata dalla paura notturna. Ma la proiezione l'abbiamo fatta lo stesso. Mille cardinali portati con trenta taxi che facevano la spola tra S. Pietro e piazza Cavour, al cinema Ariston. Venti minuti esatti di applausi hanno fatto, quando è apparsa la dedica a Giovanni XXIII. A Parigi, la proiezione dentro la cattedrale di Notre Dame, andata ancora meglio: niente lavori improvvisi." (1)
Il film vince il gran prix 1964 dell'Office Catholique international du cinema. Pasolini collabora, per la stesura della sceneggiatura, con la Pro Civitate Christiana. E' un'occasione, questa, per saldare dei rapporti di reciproca stima con gli ambienti cattolici meno conservatori e più aperti al dialogo. La critica di sinistra risponde freddamente all'uscita del Vangelo: "l'Unità" si esprime in questi termini:
"...il nostro cineasta ha soltanto composto il più bel film su Cristo che sia stato fatto finora, e probabilmente il più sincero che egli potesse concepire. Di entrambe le cose gli va dato obiettivamente, ma non entusiasticamente atto".
Pasolini risponde alle critiche, spesso preconcette, esaltando la comune avversione del cattolicesimo e del comunismo verso il materialismo borghese, unico vero nemico di Cristo. Pasolini intravede, paradossalmente, nell'ateismo di un comunista una certa religiosità in quanto "si possono sempre ritrovare quei momenti di idealismo, di disperazione, di violenza psicologica, di volontà conoscitiva, di fede - che sono elementi, sia pur disgregati, di religione" (2)
La critica del tempo non sembra comunque cogliere il senso del film e, come spesso accade, coglie l'occasione per polemizzare su e contro Pasolini:
"Il Tempo": "Il regista ha sottolineato alcuni episodi della vita di Gesù che sembrano contenere semi più rivoluzionari...".
"Il Corriere della Sera": "Combattuto tra ideologia e sentimento Pasolini ha tentato di recuperare al suo laicismo i caratteri della religiosità, ma poiché l'operazione ha un accento volontaristico, gli è sfuggito quel carattere precipuo che è il senso del mistero".
"La Notte": "Un ottimo film, più cattolico che marxista".
"L'osservatore romano": "Fedele al racconto non all'ispirazione del Vangelo".
Il film non è una ricostruzione storica fedele, ma una traspozione cinematografica della visione di Matteo, ossia del modo in cui ha inteso la vita di Cristo, non attraverso una disamina storicistica o storica, ma solo mitica. Non vi è nel film una ricostruzione storica, ma, come lo stesso Pasolini definisce:
"... una specie di ricostruzioni per analogie. Cioè ho sostituito il paesaggio con un paesaggio analogo, le regge dei potenti con regge e ambienti analoghi, le facce del tempo con delle facce analoghe; insomma è presieduto alla mia operazione questo tema dell'analogia che sostituisce la ricostruzione". (3)
Non è quindi, un film storico come le colossali produzioni americane erano solite fare. Il film non vuole essere una ricerca illustrativa ma vuole dare il senso della poesia che c'è nel Vangelo:
"La mia idea è questa: seguire punto per punto il Vangelo secondo Matteo, senza farne una sceneggiatura o riduzione. Tradurlo fedelmente in immagini, seguendone senza una omissione o un'aggiunta il racconto. Anche i dialoghi dovrebbero essere rigorosamente quelli di San Matteo, senza nemmeno una frase di spiegazione o di raccordo: perché nessuna immagine o nessuna parola inserita potrà mai essere all'altezza poetica del testo. E' quest'altezza poetica che così ansiosamente mi ispira. Ed è un'opera di poesia che io voglio fare. Non un'opera religiosa nel senso corrente del termine, né un'opera in qualche modo ideologica. In parole molto semplici e povere: io non credo che Cristo sia figlio di Dio, perché non sono credente, almeno nella coscienza. Ma credo che Cristo sia divino: credo cioè che in lui l'umanità sia così alta, rigorosa, ideale da andare al di là dei comuni termini dell'umanità. Per questo dico 'poesia': strumento irrazionale per esprimere questo mio sentimento irrazionale per Cristo". (4)
Pasolini, da non cattolico, e seguendo fedelmente il racconto di Matteo è riuscito a raccontare il Vangelo proprio grazie al suo distacco; per la mancanza di inibizioni di un cattolico praticante, e di "cattolico inconscio", cioè colui che, grazie al marxismo, ha superato la sua "condizione conformistica" di cattolico, ma è intimorito dal potervi ricadere. Pasolini, quindi, si sente libero da qualsiasi schematismo, ed è questa la ragione che lo porta a raccontare la vita del Cristo.
Il Vangelo è anche il risultato di una crisi personale di Pasolini e, più in generale, di una crisi della cultura italiana. Dice Pasolini:
"... Tutto il razionalismo ideologico elaborato negli anni cinquanta, non solo in me ma in tutta la letteratura, è in crisi, le avanguardie, il silenzio di molti scrittori, le incertezze ideologiche di scrittori come Cassola o Bassani, c'è aria di crisi dappertutto e evidentemente c'era anche in me. In me ha assunto questa specie di regressione a certi temi religiosi che erano stati costanti, però, in tutta la mia produzione. Non mi sembra ci si debba meravigliare davanti al Vangelo quando leggendo tutto quello che ho prodotto una tendenza al Vangelo era sempre implicata, fin dalla mia prima poesia del '42. [...] Quindi un tema lontanissimo nella mia vita che ho ripreso, e l'ho ripreso in un momento di regressione irrazionalistica in cui quello che avevo fatto fino a quel punto non m'accontentava, mi sembrava in crisi e mi sono attaccato a questo fatto concreto di fare il Vangelo". (5)
Il film è girato in Lucania (un paesaggio "analogo" alla Palestina in cui visse Cristo) con un cast di attori rigorosamente non professionisti। La parte di Gesù Cristo e' affidata a Enrique Irazoqui, che si trova per caso sul set del film il giorno prima dell'inzio delle riprese। La voce di Cristo è di Enrico Maria Salerno. Nel cast del film sono presenti, tra gli altri: Enzo Siciliano, nella parte di Simone e Natalia Ginzuburg nella parte di Maria di Betania. Come detto sopra, Pasolini si è riferito rigorosamente alla versione di Matteo, ma in alcuni punti del film è possibile intravedere alcuni riferimenti all'attualità: i soldati di Erode vestiti da fascisti e i soldati romani vesti da celerini. Sono comunque dei piccoli riferimenti che, in una visione unitaria del film, non distolgono lo spettatore dal racconto della vita del Cristo.Le musiche sono di Bach, Mozart, Prokofiev e Webern. Le musiche origanali di Luis E. Bacalov.

Uccellacci e uccellini
1965



Scritto e diretto da Pier Paolo Pasolini
Fotografia Tonino Delli Colli, Mario Bernardo; architetto scenografo Luigi Scaccianoce; costumi Danilo Donati; musiche originali Ennio Morricone; montaggio Nino Baragli; aiuto alla regia Sergio Citti; assistenti alla regia Carlo Morandi, Vincenzo Cerami.
Intepreti e personaggi Totò (Innocenti Totò - Frate Ciccillo); Ninetto Davoli (Innocenti Ninetto - Frate Ninetto); Femi Benussi (Luna, la prostituta); Francesco Leonetti (la voce del Corvo). E inoltre: Gabriele Baldini, Riccardo Redi, Lena Lin Solaro, Rossana di Rocco, Cesare Gelli, Vittorio La Paglia, Flaminia Siciliano, Alfredo Leggi, Renato Montalbano, Mario Pennisi, Fides Stagni, Giovanni Tarallo, Umberto Bevilacqua, Renato Capogna, Vittorio Vittori, Pietro Davoli.
Produzione Arco Film (Roma); produttore Alfredo Bini; pellicola Ferrania P 30; formato 35 mm, b/n; macchine da ripresa Arriflex; sviluppo, stampa, effetti ottici SPES; registrazione sonora International Recording (Westrex Sound System); doppiaggio CDC;missaggio Emilio Rosa; distribuzione CIDIF.
Riprese ottobre-dicembre 1965, teatri di posa Incir De Paolis, Roma, esterni Roma, Fiumicino, Tuscania, Viterbo, Assisi.
Premi XX Festival di Cannes: menzione speciale a Totò per l'interpretazione. Nastro d'argento a Pier Paolo Pasolini per il miglior soggetto originale e a Totò come miglior attore protagonista.


I commenti

.Pier Paolo Pasolini, Capolavori italiani, L'Arca società editrice de "l'Unità", maggio 1995.

Non ho mai "messo al mondo" un film così disarmato, fragile e delicato come Uccellacci e uccellini. Non solo non assomiglia ai miei film precedenti, ma non assomiglia a nessun altro film. Non parlo della sua originalità, sarebbe stupidamente presuntuoso, ma della sua formula, che è quella della favola col suo senso nascosto. Il surrealismo del mio film ha poco a che fare col surrealismo storico; è fondamentalmente il surrealismo delle favole [...]
Questo film che voleva essere concepito e eseguito con leggerezza, sotto il segno dell'Aria del Perdono del "Flauto Magico", è dovuto in realtà a uno stato d'animo profondamente malinconico, per cui non potevo credere al comico della realtà (a una comicità sostantivale, oggettiva).
L'atroce amarezza dell'ideologia sottostante al film (la fine di un periodo della nostra storia, lo scadimento di un mandato) ha finito forse col prevalere. Mai ho scelto per tema di un film un soggetto così difficile: la crisi del marxismo della Resistenza e degli anni Cinquanta, poeticamente situata prima della morte di Togliatti, subita e vissuta, dall'interno, da un marxista, che non è tuttavia disposto a credere che il marxismo sia finito (il buon corvo dice: "Io non piango sulla fine delle mie idee, perché verrà di sicuro qualcun altro a prendere in mano la mia bandiera e portarla avanti! È su me stesso che piango...").
Ho scritto la sceneggiatura tenendo presente un corvo marxista, ma non del tutto ancora liberato dal corvo anarchico, indipendente, dolce e veritiero. A questo punto, il corvo è diventato autobiografico, una specie di metafora irregolare dell'autore.
Totò e Ninetto rappresentano invece gli italiani innocenti che sono intorno a noi, che non sono coinvolti nella storia, che stanno acquisendo il primo jota di coscienza: questo quando incontrano il marxismo nelle sembianze del corvo.
La presenza di Totò e Ninetto in questo film è il frutto di una scelta precisa motivata da un'altrettanto precisa posizione nell'ambito del rapporto tra personaggio e attore.
Ho sempre sostenuto che amo fare film con attori non professionisti, cioè con facce, personaggi, caratteri che sono nella realtà, che prendo e adopero nei miei film। Non scelgo mai un attore per la sua bravura di attore, cioè non lo scelgo mai perché finga di essere qualcos'altro da quello che egli è, ma lo scelgo proprio per quello che è: e quindi ho scelto Totò per quello che è. Volevo un personaggio estremamente umano, cioè che avesse quel fondo napoletano e bonario, e così immediatamente comprensibile, che ha Totò. E nello stesso tempo volevo che questo essere umano così medio, così "brava persona", avesse anche qualcosa di assurdo, di surreale, cioè di clownesco, e mi sembra che Totò sintetizzi felicemente questi elementi.

La terra vista
dalla luna
1966.
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(Terzo episodio del film Le streghe; gli altri episodi sono: La siciliana di Francesco Rosi; Senso civico di Mauro Bolognini; La strega bruciata viva di Luchino Visconti; Una serata come le altre di Vittorio De Sica.)

Scritto e diretto da Pier Paolo Pasolini
Fotografia Giuseppe Rotunno; scenografia Mario Garbuglia, Piero Poletto;costumi Piero Tosi; musiche originali Ennio Morricone; montaggio Nino Baragli; aiuto alla regia Sergio Citti; assistente alla regia Vincenzo Cerami; sculture Pino Zac.
Interpreti e personaggi Totò (Ciancicato Miao); Ninetto Davoli (Baciù Miao); Silvana Mangano (Assurdina Caì); Mario Cipriani (un prete); Laura Betti (un turista); Luigi Leoni (la moglie del turista).
Produzione Dino De Laurentiis Cinematografica, Roma / Les Productions Artistes Associés, Parigi; produttore Dino De Laurentiis; pellicola Kodak; formato 35 mm, colore; macchine da presa Arriflex; distribuzione Dear Film / United Artists Europa.
Riprese novembre 1966, esterni Roma, Ostia, Fiumicino; durata 31 minuti.


I commenti

Nell'ottobre 1966 Dino De Laurentis propone a Pasolini di partecipare con un episodio a un film che sta producendo, Le streghe: gli altri episodi sono affidati ai registi Luchino Visconti, Francesco Rosi, Vittorio De Sica e Mauro Bolognini.
Pasolini, per questa occasione, riprende una storia già scritta e non ancora realizzata, Il buro e la bura. L'epigrafe del film porta la seguente scritta del regista: "Visto dalla luna, questo film che s'intitola appunto La Terra vista dalla Luna non è niente e non è stato fatto da nessuno… ma poiché siamo sulla Terra, sarà bene informare che si tratta di una fiaba scritta e diretta da un certo Pier Pasolo Pasolini".
Nel film sono narrate le avventure donchisciottesche di un padre e un figlio (Ciancicato Miao e Baciù) che, dopo aver pianto la morte della moglie-madre Crisantema, deceduta per avere ingerito funghi avvelenati, partono alla ricerca di una Donna ideale, che possa diventare l'anima femminile della loro baracca, sperduta in una radura piena di altre catapecchie.
I due incontrano dapprima una vedova isterica che li prende a ombrellate, poi una prostituta; a un certo punto pare che, infine, dopo tanto girovagare, abbiano trovato la donna perfetta, ma si accorgono che si tratta solo di un manichino. Disperati, padre e figlio continuano un viaggio senza più alcun senso, finché incontrano una donna bellissima (Assurdina Caì, nel film interpretata da Silvana Mangano) che appare ai due come una vera e propria dea. La donna non risponde ad alcuna domanda e Ciancicato pensa che sia sordomuta. Alla fine, Ciancicato le rivolge una richiesta di matrimonio alla quale Assuntina acconsente.
Tornati tutti nella baracca, in breve, grazie alle "virtù femminili" della donna, tutto si trasforma e in breve la baracca appare come una ordinata e graziosa casetta. Cedendo alla logica consumistica, però, Ciancicato e Baciù architettano un "lavoro" che consentirà loro di farsi una bella casa. Tale lavoro consisterà in questo: Assurdina, dall'alto del Colosseo, minaccerà di suicidarsi se non verrà aiutata a sopravvivere. Padre e figlio, intanto, raccoglieranno quattrini fra coloro che stanno assistendo alla scena. Tutto procederà in questo modo, fino a quando la donna, scivolando su una buccia di banana, precipiterà nel vuoto.
Ancora disperazione per Ciancicato e Baciù che, dopo aver sepolto la donna, tornano alla loro bicocca: in essa ritrovano Assuntina, muta e sorridente, che li aspetta. I due, felicissimi, constatano che Assurdina, anche da morta, può così continuare a svolgere tutte le funzioni che già assolveva, e gioiscono: "È la felicità, è la felicità!" Appare a quel punto la didascalia finale: "Essere morti o essere vivi è la stessa cosa".
"La morale del film", scrive Serafino Murri (Pier Paolo Pasolini, Il Castoro, Milano), "che l'autore ci dice essere tratta dalla filosofia indiana, non è, come parte delle critica militante fu portata a scrivere, 'rinunciataria o nichilistica', poiché non c'è nessun accenno di pessimistico consenso con quella affermazione: semmai, con fin troppa ironia, vi si ritrova un malcelato invito a non accettare la logica imperante, ad essere lunari quel tanto che basta per prendere le distanze dai tentacoli mostruosi del nonsenso sociale e dei suoi schematismi da marionette. La forma fiabesca stigmatizza dunque la falsità della vita, una vita perduta, sepolta in un mare di grotteschi comportamenti e necessità secondarie […]"
Nel gennaio del 1967, scrivendo a Garzanti, in quel momento editore dei suoi libri, Pasolini gli annuncia: "Infine c'è il progetto di un libro molto strano. Si tratta di questo: ho in mente una dozzina di episodi comici, che vorrei girare ancora con Totò e Ninetto [i due interpreti di Uccellacci e uccellini], ma forse non potrò farlo per i troppi impegni. Ora, la sceneggiatura dell'ultimo episodio La terra vista dalla luna, l'ho stesa sotto forma di fumetto a colori (ripescando certe mie rozze qualità di pittore abbandonate). Stando così la cosa, mi piacerebbe, piano piano, di mettere insieme un grosso libro di fumetti – molto colorati e espressionistici – in cui raccogliere tutte queste storie che ho in mente, sia che le giri, sia che non le giri".
In effetti Pasolini non scrisse una vera e propria sceneggiatura dell'episodio La terra vista dalla luna: elaborò le scene del film, girato verso la fine del 1966, disegnandole in forma di fumetti।

Che cosa sono le nuvole?
1967
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(Terzo episodio del film Capriccio all'italiana. Gli altri sono: Il mostro della domenica di Steno; Perché di Bolognini; Viaggio di lavoro di Pino Zac; La bambinaia di Monicelli; La gelosa di Bolognini.)

Scritto e diretto da Pier Paolo Pasolini
Fotografia Tonino Delli Colli; scenografia e costumi Jurgen Henze; musiche originali "Che cosa sono le nuvole?" di Modugno-Pasolini, cantata da Domenico Modugno; montaggio Nino Baragli; aiuto alla regia Sergio Citti.
Interpreti e personaggi Totò (Jago); Ninetto Davoli (Otello); Laura Betti (Desdemona); Franco Franchi (Cassio); Ciccio Ingrassia (Roderigo); Adriana Asti (Bianca); Francesco Leonetti (il marionettista); Domenico Modugno (l'immondezzaro); Carlo Pisacane (Brabanzio). E inoltre: Luigi Barbini, Mario Cipriani, Piero Morgia, Remo Foglino.
Produzione Dino De Laurentiis Cinematografica, Roma; produttore Dino De Laurentiis; pellicola Kodak; formato 35 mm, colore; sviluppo e stampa Technicolor; distribuzione Dear Film / United Artists
Riprese marzo-aprile 1967; teatri di posa Cinecittà; esterni dintorni di Roma.


I commenti

Tra marzo e aprile 1967, dopo un breve periodo di permanenza in Marocco per i sopralluoghi dell'Edipo re, Pasolini partecipò a un film a episodi, Capriccio all'italiana, nel quale il regista ebbe quali interpreti principali Totò, Ninetto Davoli, Laura Betti, Franco Franchi, Ciccio Ingrassia e Francesco Leonetti. Che cosa sono le nuvole? fu girato in una settimana: gli altri episodi furono girati dai registi Steno, Bolognini, Pino Zac e Monicelli.

In un teatro, dinanzi a un pubblico popolare, viene messa in scena una versione in chiave comica della tragedia shakespeariana Otello: i personaggi sono attori-marionette: Totò rappresenta Jago, Ninetto Davoli è Otello, Laura Betti è Desdemona, Franco Franchi è Cassio, Ciccio Ingrassia è Roderigo. ....

Domenico Modugno e Pier Paolo Pasolini
Jago mette in atto nei confronti di Otello il falso tradimento di Desdemona con Cassio: Otello riceve da Jago un fazzoletto avuto con l'inganno da Desdemona e che lo stesso Jago utilizza come prova dell'infedeltà della donna, suscitando la gelosia e le smanie di vendetta di Otello.

Il pubblico che assiste alla rappresentazione non accetta la conclusione della storia che, come nella tragedia di Shakespeare, prevede l'assassinio di Desdemona da parte di Otello: gli spettatori salgono sul palcoscenico, uccidono Jago e Otello e portano in trionfo Desdemona e Cassio.

I due attori-marionette (Jago e Otello) vengono buttati nel camion della spazzatura, poi nella discarica. Jago e Otello, semisepolti dai rifiuti, vedono sopra di loro il cielo azzurro cosparso di nuvole bianche. “Iiiiih, che so' quelle”, chiede Otello. “Sono le nuvole”, risponde Jago. “E che so' le nuvole?” “Quanto so' belle! Quanto so' belle!”, replica Otello.

Il film è una riflessione piuttosto amara sui significati dell'esistenza umana e sui rapporti tra l'apparire e l'essere”, tra la vita e la morte। Per esprimere le sue riflessioni Pasolini fa ricorso a una "rappresentazione nella rappresentazione": utilizza un famoso dramma per fornirne una rappresentazione comica e sceglie di avere come interpreti uomini-marionette. Il tutto si svolge di fronte a un pubblico popolare che sarà a sua volta attore nella rappresentazione del dramma-farsa che si concluderà in modo del tutto imprevedibile.

.Edipo re
1967
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Tratto da Edipo re e Edipo a Colono di Sofocle

Scritto e diretto da Pier Paolo Pasolini
Fotografia Giuseppe Ruzzolini; scenografia Luigi Scaccianoce; costumi Danilo Donati; coordinamento musicale Pier Paolo Pasolini; montaggio Nino Baragli; aiuto alla regia Jean-Claude Biette.
Interpreti e personaggi Silvana Mangano (Giocasta); Franco Citti (Edipo); Alida Valli (Merope); Carmelo Bene (Creonte); Julian Beck (Tiresia); Luciano Bartoli (Laio); Ahmed Belhachmi (Pòlibo); Pier Paolo Pasolini (Gran sacerdote), Giandomenico Davoli (Pastore di Polibo); Ninetto Davoli (Anghelos). E inoltre: Francesco Leonetti, Jean-Claude Biette, Ivan Scratuglia.
Produzione Arco Film (Roma), con la partecipazione di Somafis, Casablanca, Marocco; produttore Alfredo Bini; pellicola Kodak Eastmancolor; formato 35 mm, colore; macchine da ripresa Arriflex; sviluppo, stampa, effetti ottici Technicolor italiana; registrazione sonora NIS Film; missaggio Fausto Ancillai; distribuzione Euro lnternational Films.
Riprese aprile-luglio 1967, teatri di posa Dino De Laurentiis Cinematografica, Roma, esterni Veneto, Bassa Lombardia [Cascina Moncucca e dintorni], Sant'Angelo Lodigiano, Bologna; Marocco: It'ben addu, Ouarzazate; Zagora; durata 104 minuti.
Prima proiezione XXVII Mostra di Venezia, 3 settembre 1967; premi XXVIII Mostra di Venezia, Premio CIDALC (Confédération Internationale pour la Diffusion des Arts et des Lettres par le Cinema); Grolla d'oro, Saint Vincent, 6 luglio 1968; Premio Nastro d'Argento 1968 a Bini e Scaccianoce.


I commenti

Una pietra miliare indica la città di Tebe: ma la scena ha luogo in un paesino del Nord Italia degli anni Venti, dove vediamo una levatrice portare alla luce un bambino. Una donna (Silvana Mangano) gioca con delle amiche su di un prato, poi prende con tenerezza il suo bambino in braccio e lo allatta. Sulle note del Quartetto delle Dissonanze di Mozart, il volto sorridente della madre che allatta è attraversato da un momento di panico, prima di tornare al sorriso. Sotto un balcone da cui pende la bandiera italiana con lo stemma sabaudo, un giovane ufficiale guarda con severità il bambino che gioca nella carrozzella. L'uomo è il padre del bambino, e il suo pensiero è espresso tramite una didascalia: egli teme che suo figlio sia nato per prendere il suo posto sulla terra e ricacciarlo nel nulla, appropriandosi innanzitutto dell'amore della sua donna. Viene la notte. Dopo essersi assicurati che il bambino sta dormendo, i genitori si recano ad una festa da ballo in un palazzo attiguo al loro. Ma poco dopo il bambino si sveglia turbato, esce sul balcone, e vede, attraverso le tende delle finestre, le silouetthes dei genitori che ballano abbracciati. Esplodono dei fuochi d'artificio, il bambino è preso dal panico, piange. Di notte, il padre e la madre in una stanza, e il figlio nell'altra, sono svegli, pensierosi, inquieti. Sulle note di una musica etnica africana, il padre si reca nella stanza del bambino e ne stringe le caviglie con forza. Il bambino si lamenta. La scena si sposta nell'antica Grecia, sul monte Citerone. Un bambino è appeso per le caviglie a un palo, portato a spalle da un servitore di Laio, re di Tebe. Il compito dell'uomo è uccidere il bambino, per evitare che si avveri una profezia dell'oracolo di Delfi, secondo la quale il figlio di Laio, una volta cresciuto, avrebbe ucciso il proprio padre e sarebbe giaciuto con la propria madre. Il servitore (Francesco Leonetti), però, non ha il coraggio di ucciderlo, e finisce per abbandonarlo nel deserto. Ma un vecchio pastore, che ha assistito alla scena, raccoglie con tenerezza l'innocente, e lo porta in omaggio al suo sovrano Pòlibo, re della città di Corinto. Pòlibo, trionfante, mostra il bambino alla sua consorte Mèrope, la quale decide di adottarlo come figlio, con il nome di Edipo, che letteralmente significa "colui che ha i piedi gonfi". [...] [Cresciuto, Edipo apprende] di essere un "figlio della fortuna", un trovatello. [...] Decide di recarsi a Delfi a interpellare l'oracolo sulla origine dei suoi sogni: così [...] si incammina verso il tempio d'Apollo. L'oracolo, con una raccapricciante voce femminile, lo scaccia via seccamente, rivelandogli il suo destino incestuoso e parricida. In preda alla costernazione, Edipo si allontana. Per evitare che la profezia si avveri, decide di non tornare mai più a Corinto [...] prende una direzione qualsiasi. Ma la direzione è sempre, fatalmente, quella di Tebe. Sulla strada assolata giunge il carro del re Laio. Laio maltratta Edipo, solo e senza scorta, e lo insulta come se fosse un mendicante: Edipo decide di vendicare l'affronto: con una corsa forsennata, urlando fermamente la propria rabbia, uccide a uno a uno, nel silenzio desertico, sotto gli occhi del sovrano, tutti gli uomini della sua scorta. La stessa sorte infine tocca anche al re Laio. Edipo, stremato dalla carneficina, riprende il suo casuale cammino, che lo conduce finalmente a Tebe [...] dove la Sfinge, creatura oscura, è giunta all'improvviso sulla montagna alle porte della città, seminando sciagura. [...] esiste una "taglia" sull'uccisione della Sfinge: colui che ricaccerà la Sfinge nell'abisso, diventerà marito della regina di Tebe, la vedova Giocasta. Edipo, non ascoltando le parole della Sfinge che ancora una volta lo mette di fronte al suo destino oscuro, riesce con una cieca violenza nell'impresa di sconfiggere l'inattaccabile creatura dell'abisso. Così il messaggero annuncia alla propria città festante che è giunto il nuovo re, Edipo. Alla fine dei cortei di ringraziamento, Edipo e Giocasta giacciono insieme nel talamo nuziale. L'oscuro destino del "bimbo dai piedi gonfi" si è ormai compiuto. La peste infuria su Tebe. Il gran sacerdote (Pasolini) parla con Edipo a nome del popolo, e gli chiede ragione di quanto sta accadendo. Edipo gli risponde di essere in attesa del ritorno del cognato Creonte, che si è recato a Delfi per avere un responso sugli eventi luttuosi dall'oracolo. Creonte torna, e rivela che la causa della peste è la vendetta degli dei, irati per la presenza a Tebe di un uomo impuro, la cui colpa è l'uccisione del re Laio. Edipo decide di vendicare l'uccisione di Laio come se egli fosse stato "suo padre". Ma nonostante i provvedimenti del re siano sempre più severi, la situazione non muta. I morti vengono ormai bruciati a decine nei roghi comuni. Edipo decide di consultare Tiresia, il veggente cieco [...]; Tiresia rivela che Edipo prima o poi saprà di essere fratello e padre dei suoi figli, figlio e marito di sua madre, e che vagherà per il mondo senza più poterlo vedere [...] Durante una conversazione con Giocasta, che gli sta spiegando i particolari dell'assassinio di Laio, Edipo apprende che il fato avverso lo ha ormai ghermito, che lui è il vero assassino, il responsabile della catastrofe di Tebe. Giocasta non vuole perdere Edipo, cerca di tranquillizzarlo, ma Edipo urla con dolore la verità ormai compresa. Edipo raggiunge l'unico testimone dell'assassinio di Laio rimasto in vita, il vecchio servitore, per averne conferma. Una volta raggiunto sulle montagne quell'uomo, Edipo lo costringe a dire "quello che non si può dire": che il re di Tebe che ha ora innanzi a sé è il figlioletto di Giocasta e di Laio che egli aveva abbandonato sul monte Citerone molti anni addietro. Edipo ritorna il palazzo, ormai cosciente dell'avverata profezia. Lì trova Giocasta che si è uccisa, impiccandosi nella stanza da letto. Allora, con un gesto fulmineo e fermo, simile a quelli con cui ha fatto strage di Laio e della scorta, Edipo si acceca entrambi gli occhi con la spilla delle vesti di Giocasta. Poi, accecato, esce dal palazzo, e incomincia a brancolare nel suo buio definitivo, pietosamente accompagnato dal messaggero. Edipo e il messaggero si trovano ora, vestiti in panni moderni, sotto i portici di una Bologna di fine anni Sessanta. Edipo suona il flauto sulle scalinate delle chiese, ma è inquieto, disperato, e cerca di continuo di andarsene altrove. Camminando sempre più in periferia, attraverso panorami sconsolati di fabbriche e rifiuti urbani, Edipo giunge finalmente al prato in cui il bimbo nato negli anni Venti aveva aperto gli occhi per la prima volta. Edipo è giunto dove la sua vita è cominciata, e dove dunque, ora, può concludersi del tutto.
[...]
La cecità di Edipo (un "innocente" perseguitato da un destino avverso e crudele), simboleggia l’incapacità dell’uomo contemporaneo di "vedere" – e di sforzarsi di comprendere – le situazioni in cui si trova, situazioni per molti versi drammatiche e terribili. Il suo vagare in un paesaggio desertico, in totale assenza di rapporti umani e di qualsivoglia comunicazione, senza che pronunci alcuna parola e soprattutto senza una meta che non sia quella che il "destino" stesso gli indica ineluttabilmente, dà il senso preciso di questo estraniamento, di questo tremenda, assoluta mancanza di possibilità e di volontà di "vedere".
L’intento autobiografico – che c’è ed è volutamente svelato da Pasolini perfino dal particolare dell’ambientazione a Bologna del prologo e dell’epilogo del film – è evidente, ma non è il solo che il poeta si propone. Egli, infatti, inizia con Edipo re a percorrere, con i suoi lavori, la via di una denuncia sempre più aperta, provocatoria e priva di intenti giustificatori, che avrà la sua massima espressione nella rappresentazione delle atrocità di Salò. Pasolini è un intellettuale che conosce la realtà, l’avvenuta "mutazione antropologica" del suo tempo, e che sente, quale suo primario compito morale, civile e politico, di dovere richiamare l’attenzione dei suoi contemporanei affinché non diventino "ciechi", affinché non accettino come ineluttabile il divenire dei fatti e della Storia.
[...]


Appunti per un film
sull'India
1967-68

Scritto, diretto, fotografato e commentato da Pier Paolo Pasolini
Collaborazione Gianni Barcelloni Corte; montaggio Jenner Menghi Produzione Rai Radiotelevisione Italiana; produttore delegato Gianni Barcelloni Corte, BBG cinematografica srl; pellicola Kodak; formato 16 mm, b/n; macchine da ripresa Arriflex.
Riprese dicembre-gennaio 1968; esterni Stato di Maharashtra (Bombay), Stato di Uttar Pradesh, Stato di Rajahstan, New Delhi; durata 34 minuti.
Prima proiezione XXIX Mostra di Venezia, sezione "Documentari", 18 agosto 1968.


I commentI

Alla Mostra del cinema di Venezia del 1968, insieme a Teorema, Pasolini presentò anche il mediometraggio Appunti per un film sull'India, girato nel dicembre 1967. Naldini spiega nella sua biografia pasoliniana (Pasolini, una vita, Einaudi 1989) che tali "appunti" si riferivano sostanzialmente a un film da farsi "sulla storia di un maragià il quale, secondo una leggenda mitica indiana, offre il proprio corpo alle tigri per sfamarle (questo, idealmente, prima della liberazione dell'India); e, dopo la liberazione dell'India, sempre idealmente, la famiglia di questo maragià scompare perché i suoi membri muoiono di fame ad uno ad uno durante una carestia". "Questa era l'idea del film", spiegò Pasolini nel corso di una intervista. "Così sono andato in India a fare una specie di inchiesta per verificare se questa idea era attendibile o no."
Pasolini aveva in un primo tempo progettato di realizzare un film sullo svilupparsi di una coscienza politica in alcune nazioni del Terzo Mondo, alcune delle quali si erano affrancate dal colonialismo e stavano avviando forme di gestione democratica.
Per rappresentare poeticamente tutto ciò, il regista prevedeva di utilizzare racconti che avessero le loro radici nella cultura locale e che risultassero omogenei grazie a ciò che egli stesso definiva un "sentimento violentemente e magari anche velleitariamente, rivoluzionario: così da fare del film stesso un'azione rivoluzionaria (non partitica, naturalmente, e assolutamente libera fin quasi all'anarchia)".
Pasolini presentò diversi progetti ad alcuni produttori: l'unica possibilità di realizzazione gli si prospettò però grazie alla Rai, che gli propose di fare uno "speciale" per TV7.
Pasolini effettuò le riprese cinematografiche per le strade, principalmente nella città di Bombay e nelle sue estreme, poverissime periferie, con la cinepresa in spalla, riprendendo gente comune e dialogando con alcuni intellettuali indiani. L'intento del regista non era quello di realizzare un documentario, ma di verificare la propria concezione poetica del film. E di ricercare inoltre i personaggi che interpreteranno l'episodio. Pasolini presenta a persone di ogni estrazione sociale la propria idea di realizzazione della storia del marajà: di tali persone egli ascolta e registra le opinioni, i commenti, i suggerimenti; e coglie, sui volti vecchi e giovani di coloro che incontra, e nei gesti, nei sorrisi puri, nei quali traspare una grande quiete interiore, una incredibile ricchezza di espressioni.
Nel filmato sono numerose le immagini di povertà e di morte: sulle riprese di un corteo funebre e di una cremazione il film si conclude con le parole di Pasolini: "Un occidentale che va in India ha tutto, ma non dà niente. L'India, invece, non ha nulla, in realtà dà tutto".


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